VI. Ho un nome, non sono più nessuno

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Io e Tom quell'estate tornammo all'orfanotrofio. Fummo entrambi occupati a studiare e migliorare, ognuno con la sua tecnica. Come sempre, cercò di ignorarmi il più possibile, ma farlo all'orfanotrofio era più difficile che farlo ad Hogwarts e io ero meno propensa a stargli lontana quando attorno a noi non c'erano maghi o streghe, ma babbani, il quale giudizio non contava per nessuno dei due. 

Passava la maggior parte del suo tempo, se non tutto, chiuso nella sua stanza a studiare. Un giorno bussai, sapevo di trovarlo lì, ma non aprì. Non volendo disturbarlo ancora, mi limitai a far passare sotto la porta un foglietto recante una domanda. La porta si aprì. Con il foglietto in mano Tom andò a sedersi sul letto, ai quali piedi erano accostati i suoi libri. 

Aveva lasciato la porta aperta, era un invito a entrare. Lentamente mi avviai verso l'unica sedia nella stanza, mi sedetti e aspettai un risposta. Mi guardò torvo e mi porse indietro il foglietto, io lo presi e iniziai a rigirarmelo tra le mani. Anche se tenevo la testa bassa, il mio sguardo era rivolto alle sue labbra, per cogliere qualsiasi parola ne sarebbe scaturita fuori. 

 Perché sembrava sempre così infelice? Mi chiesi quando potei osservarlo più da vicino. Non avevo mai visto un sorriso felice sul suo volto. Quei pochi sorrisi che concedeva agli altri erano sempre forzati e con secondi fini. Forse anche questo ci rendeva così simili nell'aspetto, due visi assenti da pura e ingenua felicità giovanile.

-Il trentuno Dicembre. 

 Mi disse senza spostare lo sguardo da me. Gli avevo chiesto il giorno del suo compleanno. La mia intenzione era fargli un regalo, che dimostrasse le mie capacità da strega e la mia gratitudine. Dovevo ringraziarlo d'esistere e di essere chi è. Grazie alla sua sola presenza io ero ancora viva. 

Forse sarebbe stato difficile per lui capire, se non impossibile, perché non aveva mai intenzionalmente fatto qualcosa per aiutarmi, ma non m'importava. Io volevo fargli un regalo e sarei stata soddisfatta da questo mio gesto. 

 Annuì con la testa per fargli capire che avevo compreso la sua risposta. Continuavo a spostare lo sguardo da lui al pavimento, mentre accartocciavo ansiosamente il foglietto di carta. Lui invece teneva lo sguardo sospettoso e curioso fisso su di me. Mi sentivo in soggezione, stare in sua compagnia per un tempo così lungo rispetto al solito mi faceva troppo piacere e quel piacere io non sapevo gestirlo. 

-Il tuo nome. Nessuno lo sa. Tutti pensano che tu non ne abbia uno, ma io so che non è così. Tutti hanno un nome. Vorrei sapere il tuo, la gente ti chiama con troppi soprannomi e io non ho voglia di stare a sceglierne uno. Forse è arrivata ora che tu lo dica a qualcuno. Tu mi hai chiesto il giorno del mio compleanno, credo di avere il diritto anche io a una domanda. Allora, come ti chiami? 

 Mi porse un altro foglio e una piuma, voleva che glielo scrivessi. Io non seppi cosa fare. Il mio nome era pericoloso. Potevo fidarmi di lui? Se glielo dicevo nessun altro avrebbe dovuto saperlo. Anche se farlo era rischioso, l'idea di condividere con lui qualcosa di così personale, e solo con lui, mi fece impazzire dalla gioia. 

Presi la mia decisione. Glielo avrei detto. Scrissi il mio nome e cognome. "Tayton" sembrava dare un peso maggiore al foglio, come se una forza astratta si materializzasse sulla carta, rendendola più pesante. Con mano tremante gli porsi il mio nome. Con lo sguardo ancora fisso sul foglio, lo vidi sogghignare per un breve momento. Speravo avesse prestato attenzione al mio messaggio.

-Quindi vuoi che resti segreto. Va bene, non lo dirò a nessuno. Ho già letto il tuo cognome da qualche parte, ma adesso non ricordo dove. Comunque, hai bisogno di un nome ufficiale che gli altri possano usare per riconoscerti, a meno che tu non voglia continuare a essere chiamata "la maledetta", "la sorda", "senza voce" e via dicendo. 

 Aveva ragione. Non sapevo cosa pensare. Continuavo a chiedermi quale fosse stata la ragione che l'aveva spinto a dirmi quelle cose. Alla fine ci rinunciai presto e mi limitai a gioire di quello che stava accadendo. Alzai le spalle e scossi la testa; non mi veniva in mente nessun nome. 

Lui mi guardò dall'alto in basso, un po' deluso.

-Non sai come vuoi chiamarti? 

 Dissentii con la testa e mi strinsi in un abbraccio le ginocchia.

-Ti va bene se te lo do io un nome? 

 Lo guardai meravigliata, come se qualcuno mi avesse appena offerto un viaggio di sola andata in paradiso. Annuì molto lentamente con la testa.

-Meredith. Sì, sarai Meredith. Un nome banale, ma non troppo. Perfetto per non dare nell'occhio, ma allo stesso tempo per non venir confusa con qualcun altro. Forse sarai l'unica Meredith della scuola. Ti va bene, no? 

 Annuì convinta. Sì, che mi andava bene, più che bene! 

"Meredith". Continuavo a ripeterlo nella mia testa e più lo facevo, più mi piaceva. Volevo sorridere, quel sorriso innocente di cui non mi credevo più capace, ma non lo feci. Mi accorsi che accanto a lui preferivo dimostrare controllo e sicurezza, un sorriso così ingenuo e puro sarebbe stato tutto il contrario. 

 Tom si alzò dal letto e avvicinò il suo viso al mio prima che io me ne potessi rendere conto. C'era qualcosa nei suoi occhi che mi intimoriva, qualcosa che in quel momento si distaccava violentemente dai suoi tratti delicati. Due occhi che cercavano la paura altrui per sfruttarla a proprio vantaggio. 

Con il solo sguardo mi stava minacciando e io, quasi istintivamente, mi ritirai indietro sulla sedia, ma non staccai il mio sguardo dal suo, troppo curiosa di sapere la causa di tale ira.

-Sei tra gli alunni più scarsi e deboli di Hogwarts. Il tipo di persone che più odio, quindi, a meno che tu non migliori, e ho visto che puoi, preferirei non avere nulla a che fare con te. Questa è l'unica conversazione che avremo se continuerai così. Siamo d'accordo? Certo che siamo d'accordo. Puoi andare, non ho più nulla da dirti. 

 Si allontanò da me annoiato e con una mano mi indicò la porta. Mi alzai rumorosamente, le mani strette a pugno. Annuì convinta e uscii dalla stanza molto velocemente. 

Le sue parole erano state molto crudeli, ma non mi ferirono minimamente. Ero d'accordo con lui in tutto e per tutto, anzi, mi sorpresi che i nostri punti di vista fossero tecnicamente uguali.

 Quell'incontro fu decisivo per me e per la mia forza di volontà. 

 Avevo familiarizzato con le vibrazioni della mia bacchetta fino a diventare una cosa sola con lei. Sentivo che potevo renderla pure più potente di quanto non lo fosse già, e anche più bella. Con alcune piccole modifiche sarebbe stata in grado di creare cose incredibili.

Il Diario Segreto di una Strega PerdutaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora