13 giorni dopo
Bucky
Non si può dire che dopo quell'ultimo scontro con Karli e il suo gruppo le cose fossero tornate alla normalità.
Cos'era, oltretutto, la normalità per me?
In ogni caso, le cose non tornarono come prima. Stavo guarendo, o perlomeno, stavo iniziando a farlo davvero. Quel senso di colpa che mi opprimeva il petto era diventato più leggero, anche se so che non potrà mai sparire del tutto. Una volta tornato a casa, mi ero dedicato a completare la mia lista, depennando ogni singolo nome. Avevo cercato ogni persona, e sistemato le cose con ognuna di esse. Avevo fermato chi era al potere grazie a me e detto la verità a coloro che avevo ferito, indirettamente o meno. Le cose non si facevano più facili man mano che andavo avanti con la lista, ammettere di aver ucciso un loro famigliare o di aver provato ad ammazzarli non era mai semplice: tutte le volte mi vergognavo di me stesso, nonostante nessuna di quelle persone mi avesse trattato male, una volta detta la verità. Una volta completata la lista, ho staccato le pagine, inserendole in una busta con un bigliettino.
"Ho finito il libro, grazie del suo aiuto, Dottoressa" ho scritto, indirizzandolo poi alla mia psicologa. A suo modo, anche lei aveva partecipato al mio percorso di ammenda, quindi mi sentivo in dovere di dirle che ce l'avevo fatta.
Non avevo più dormito sul pavimento, e soprattutto, riposando accanto alla donna di cui mi ero innamorato, anche gli incubi stavano svanendo. In quasi due settimane, ne avevo avuto solo uno. Naomi mi aveva subito stretto a sé, cullandomi e ripetendomi frasi dolci.
"Ssh, Bucky, ci sono io qui" aveva detto al mio orecchio con la sua voce vellutata.
Avevo appoggiato una mano sul suo fianco e avevo intrecciato le gambe con le sue, per sentirla il più vicino possibile. I suoi leggeri pantaloni del pigiama sfregavano contro le mie gambe nude, mentre posavo la testa sulla sua spalla. Lei mi aveva baciato la fronte e passato ripetutamente i polpastrelli in mezzo ai capelli, per farmi rilassare. Mi era stata accanto tutto il tempo, accompagnandomi da ogni mio nome sul taccuino. Senza doverne parlare esplicitamente, lei si era trasferita a casa mia, che ormai mi piaceva definire nostra. Le stanze profumavano di lei, del suo bagnoschiuma alla vaniglia e del suo shampoo alla camelia. E soprattutto, l'aria era colma del nostro amore.
Forse l'avevo finalmente trovata, la mia normalità: era stare seduto sul divano, stringendola, guardare un film insieme, mettere la musica degli anni '40 e ballare in salotto, cucinare insieme e bruciare una torta perché troppo impegnati a toglierci i vestiti.
"Ti amo, non sai quanto" le dissi, mentre le sganciavo il reggiseno.
Le sue labbra scesero sul mio petto e ne baciarono ogni centimetro, intanto che io muovevo le mani fino a stringerle il seno.
Tornò a baciarmi le labbra e ne approfittai per prenderla in braccio e posarla delicatamente sul letto, infilandomi poi fra le sue gambe, che mi cinsero i fianchi.
Quel pomeriggio, ci concedemmo l'uno all'altra, unendoci nel modo più intimo e dolce possibile. Ci stavamo guardando negli occhi, accarezzandoci a vicenda il viso, quando l'odore di bruciato impuzzolì l'aria.
"Oddio, la torta!" disse lei, afferrando la mia maglia dal pavimento, prima di indossarla e di correre in cucina.
Qualche giorno dopo, mentre era sotto la doccia, uscii per andare a comprare la cena, e ne approfittai per prenderle anche un mazzo di rose. Lei, al mio ritorno, mi disse che ero decisamente un uomo di altri tempi, e che dimostravo tutti i miei 106 anni venendo da un'altra epoca. Avevo riso e l'avevo baciata, dicendole che l'unico lato positivo di essere arrivato nel 2024, era aver conosciuto lei.
Facemmo una doccia insieme per poi addormentarci abbracciati sotto le coperte. Mi aveva svegliato, la mattina seguente, baciandomi le guance e accarezzandomi la schiena.
L'avevo vista scrivere una lettera per Zemo e commuoversi quando ricevette la sua risposta, dove lui diceva di essere fiero di lei. Suo padre biologico, Georges Batroc, l'aveva contattata chiedendole di rivedersi. Lei non mi ha mai lasciato solo con i miei demoni, ed io feci lo stesso: la accompagnai all'incontro, per supportarla e proteggerla, tenendole la mano tutto il tempo. Batroc le aveva raccontato la verità: non era scappato, ma Marilyn lo aveva cacciato, proibendogli di conoscere o vedere sua figlia. Non voleva che la sua bambina avesse un padre criminale e ricercato, così gli negò la possibilità di sapere qualsiasi cosa su di lei. A prova di ciò, Georges aveva portato con sè delle lettere scritte da lui, vecchie di anni ed anni, indirizzate a Marilyn, in cui chiedeva di poter vedere Naomi. Lettere che, però, venivano sempre rispedite al mittente, senza risposta. Georges non sapeva che le due avessero cambiato indirizzo, da Sokovia a New York, e poi di nuovo a Sokovia, da Zemo, quindi le lettere successive nemmeno furono recapitate.
Georges la abbracciò, chiedendole di restare in contatto, così si scambiarono i numeri di telefono.
Stavamo entrambi mandando via i mostri che ci tormentavano la notte, proteggendoci a vicenda. Ovunque andassimo, tenevo sempre un occhio vigile su di lei. Come in questo momento: eravamo appena scesi dalla mia auto, e la guardavo correre verso Sarah. I fratelli Wilson avevano organizzato una festa, per celebrare la vittoria contro i Flag Smashers e la barca aggiustata e ritornata quasi nuova. Il loro cortile brulicava di persone, molte delle quali avevano contribuito alle riparazioni. C'erano diversi tavoli su cui erano stese delle tovaglie di carta bianche e azzurre, con dei vassoi ricolmi di cibo: panini, focacce, verdura grigliata, crostacei, pannocchie di mais, crostate e torte.
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The Border / Bucky Barnes
FanfictionEra una vita semplice, la sua: visita giornaliera in prigione, alle dieci del mattino, per poi tornare nella villa di Hemult Zemo. Le piaceva la Germania, non era male e lei si era abituata, ma comunque non poteva definire "casa" un paese più di un...