La stanza si era riempita di schiamazzi e risa di gente che aveva alzato un po' troppo il gomito.
Eren si guardava intorno, l'entusiasmo di essere finalmente entrato a far parte di quel gruppo lo aveva ormai abbandonato.
Aveva capito fossero divisi in squadre, ognuna aveva un settore della città. Hanji, nonostante lo avesse presentato, non poteva essere il suo caposquadra, il fatto che controllasse dove lui viveva glielo impediva. Quindi era stato affidato alla squadra Levi. Aveva avuto un po' di panico appena saputo che il moro dagli occhi glaciali dovesse fargli da mentore, ma era uno tra i più forti e rispettati, sapeva avrebbe avuto soltanto da imparare.
Più si guardava intorno e più vedeva nasi rossi e bicchieri che si scontravano, le lunghe file di tavoli rovinati e scheggiati erano occupate da bottiglie ormai dimezzate, se non finite. A quanto pare ogni volta che c'era un nuovo arrivo lo usavano come pretesto per festeggiare, anche se per il ragazzo sembrava solo una perdita di tempo. Non era certo andato lì per ubriacarsi insieme ad altra gente, era andato lì per cambiare il mondo. Ma se persino Hanji gli aveva detto di rilassarsi per oggi, forse poteva concederselo.
L'unico che sembrava non divertirsi era proprio Levi, seduto in un angolo, se ne stava a testa china intento a lucidare un pugnale.
Abbandonò la sua sedia, sfuggendo ai suoi nuovi compagni e le loro mille domande, non aveva voglia di restare in mezzo a quel caos, a pensarci bene, voleva solo tornare a casa sua.
Sentì una stretta al petto.
Aveva lasciato quel posto così di corsa da non essersi neanche domandato se fosse pronto o meno. Aveva salutato come si deve tutti quei spazi che gli erano appartenuti fino a quella mattina?
Senza che nessuno gli prestasse attenzione, si spostò silenziosamente nel corridoio da dove era entrato, sospirando si mise seduto su quelle vecchie scale rotte, poggiò i gomiti su qualche gradino più in alto e alzò la testa per guardare il soffitto. Si immaginò che sarebbe potuto crollargli addosso da un momento all'altro, tante erano le crepe che correvano anche lungo le pareti.
Chiuse gli occhi abbandonandosi alla sua malinconia.
Era stanco di doverla celare, di urlare per sovrastare le debolezze e riempire i vuoti di un cuore che non sapeva arrendersi. Agli occhi di molti doveva sembrare solo un ragazzino esaltato, impaziente di farsi ammazzare, ma se solo gli avessero visto dentro, se solo avessero mai provato a vedere oltre, avrebbero visto una profonda disperazione, una solitudine forzata.
Avrebbe davvero difeso chiunque pur di salvare lei?
Eppure lo aveva giurato.
Avrebbe offerto il suo cuore, avrebbe dato la sua vita, perché salvarne anche solo uno, anche se non era lei, sarebbe stato un passo in avanti verso un mondo più giusto.
Se non lo avevano, le avrebbe costruito un mondo su misura.
I ricordi andarono a quella mattina, erano passate poche ore ma sembrava un'altra vita. Era assurdo pensare che quella stessa mattina si era svegliato nel suo letto, aveva corso per le sue scale e aveva fatto colazione nella sua cucina.
Non avrebbe più potuto farlo?
Quella mattina l'aveva lasciata per l'ennesima volta. Faceva sempre più male, il suo cuore diventava ogni volta più piccolo.
A lei sembrava andare bene e lui ci aveva anche creduto, usandola come una spinta in più per abbandonare quella casa e i suoi ricordi. Le aveva creduto perché seduta a quella tavola lei non aveva fatto un fiato, non si era scomposta neanche un po', era stata la Mikasa impassibile di sempre. Così aveva avuto la forza per fare i bagagli e andarsene. Ma la sua forza derivava da una bugia e con essa era crollata quando aveva visto la ragazza correre per i gradoni della via, cercandolo con sguardo disperato.
Forse, dopo tutte le volte che ci aveva provato, doveva aver imparato a dirle addio, a sapere almeno come fare. Invece era sempre al punto di partenza, con il mal di testa e i crampi alle mani per quanto stringeva inconsapevolmente i pugni.
Non era in grado neanche di darle un addio decente, figuriamoci se sarebbe riuscito a darle una vita migliore. Non sapeva fare nulla, non senza di lei.
Era sempre stato così, fin da bambini lei colmava le mancanze di lui. Era lei che riparava i suoi danni, era lei che si ricordava ciò che lui scordava, se lui non veniva sgridato dalla madre la maggior parte delle volte era grazie a Mikasa e questo valeva anche a scuola.
Era migliore al suo fianco, ecco perché aveva il disperato bisogno di esserle vicino.
No. Non poteva usarla per sentirsi una persona migliore quando a tutti gli effetti non lo era. Doveva diventare una persona migliore per lei, non di riflesso a lei.
Si sentiva perso senza di lei, ma questo non gli avrebbe impedito di portare avanti i suoi obiettivi. Non poteva più vivere protetto dalla sua luce.
Riaprì gli occhi. Tutto quel tufo gli ricordò la tavola calda dove lavorava la madre.
Prima che arrivasse Mikasa, era solito aspettare sveglio la madre che rientrava da lavoro, poi si faceva portare in braccio fino al letto. Non dormiva se Carla non gli dava la sua dolce "buonanotte".
Dopo l'arrivo della sorellastra tutto era cambiato. Lei non dormiva se lui era sveglio ed Eren non sopportava vederla morire dal sonno ma lottare per restargli vicino, così la convinceva ad andare a letto, spesso si addormentavano vicini, nel suo.
Il letto in cui era diventato grande si era fatto sempre più freddo e vuoto. Mikasa non ci aveva più dormito.
Era stato un vero disastro, sia come figlio che come fratello ed era forse per questo che si era ritrovato tutto solo in quel letto, improvvisamente.
Si, voleva tornare a casa sua. Quasi si metteva a piangere come un bambino capriccioso. Voleva tornare indietro nel tempo, in un momento in cui ci fosse stata anche lei su quel letto.
Avrebbe rivisto quei bambini innocenti dormire insieme, si sarebbe rivisto anche leggermente scocciato dal modo scomposto di dormire della sorella e avrebbe riso di nuovo la mattina seguente nel vederla con i capelli scompigliati e la bavetta alla bocca. Voleva tornare esattamente lì per poter rifare tutto da capo, per poter fare di quei momenti la sua sola casa, non un posto da cui scappare.
Sapeva di non poter più avere indietro quella vita, sapeva di non aver altre occasioni per aggiustare le cose, l'unica cosa che poteva fare era guardare da lontano la sua casa e darsi da fare per rendere più semplice la vita di chi amava. Non gli interessava come lo avrebbe ottenuto.
Certo, tornare da lei sarebbe stata una bellissima sconfitta, doveva ammetterlo. Anche con i lividi su tutto il corpo, anche con il cuore stremato e il fiato corto di un perdente che ci aveva messo tutto se stesso ma restava comunque un perdente, anche così sarebbe stato felice al suo fianco.
Da quando lei non era con lui i giorni erano tutti uguali, noiosi allo stesso modo. Susseguendosi uno dopo l'altro avevano scacciato via le giornate fatte di risate e giochi, di corse in mezzo ad un prato e di picnic sotto il loro albero.
Ripensare a quel posto adesso gli portava solo malinconia, quando da bambini lui, Mikasa ed Armin non vedevano l'ora di correrci e sdraiarsi sotto le fronde che riparavano dal sole cocente.
I due amici ci erano più tornati da soli? Lui non ne aveva avuto mai il coraggio. Lì per la prima volta pensò a Mikasa come la "ragazza che voglio baciare". Aveva pensato esattamente questo, un giorno, guardandola tenersi il cappello di paglia con un grazioso fiocco blu, regalatole dalla mamma e che rischiava di farsi portare via dal vento. Se ne vergognò, ma aveva a malapena dodici anni e non sapeva che quello sarebbe stato solo l'inizio.
Voleva fosse tutto più semplice, lo aveva sempre voluto. Non era mai stato da cose troppo complicate, da piani troppo difficili, eppure si era ritrovato a vivere in balia della sua incoerenza e questo aveva reso tutto tremendamente complesso.
Avrebbe voluto fosse facile, come quando si svegliava l'indomani mattina con Mikasa ancora addormentata al suo fianco e la mamma che faceva salire il profumo della colazione dalla cucina alle camere.
Avrebbe voluto anche fossero continuate così le sue giornate. Non avere quei sentimenti gli avrebbe permesso di avere la vita che voleva, di fare solo le cose che voleva fare, di avere ancora un cuore intero nel petto, non solo l'ombra di ciò che era stato, di ciò che aveva vissuto con lei.
Pensò che il suo cuore fosse più simile ad uno specchio rotto che ad un organo. Pensò che fosse uno specchio finito in mille pezzi e che ognuno di quei frammenti rifletteva un ricordo, di quelli più felici ma paradossalmente più taglienti, momenti solo loro, momenti in famiglia, momenti con gli amici, con Armin. Ma se si prendevano tutti i mille pezzi e si provava a ricostruirlo forse non era neanche la metà. Il pezzo che era rimasto intatto lo aveva sicuramente lei, se chiudeva gli occhi e si concentrava riusciva a sentirlo battere a chilometri di distanza, riusciva a sentirsi a casa, perché casa era dove stava lei.
<< Moccioso, che ci fai qua?>>
Abbassò la testa nell'udire quel tono scontroso e i suoi occhi finirono involontariamente a fissare quelli del suo temibile caposquadra.
<< Mi scusi, stavo solo...>>
Non era mai stato capace ad inventare scuse.
<< Non mi interessa, fammi passare.>>
Notando la difficoltà di Eren nel rispondergli, Levi, preferì tagliare corto e levare entrambi da quella situazione, per il ragazzo imbarazzate, per lui solo seccante. Fece i primi gradini, poi arrivato in quello dove Eren aveva i piedi, si bloccò e gli diede un calcio sullo stinco della gamba sinistra per farlo spostare.
<< Aio!>> si chinò lasciando la sua comoda posizione e andando a massaggiarsi il punto della gamba colpita.
<< Così ti levi da mezzo quando ti si chiede.>> lo sorpassò come se non fosse successo nulla e aprì la porta per uscire.
<< Ma io...>>
<< E non ribattere, piuttosto vieni con me.>>
STAI LEGGENDO
Tatakae
FanfictionUna vita diversa, o quasi, un conflitto mondiale, una guerra interna, orgoglio e sentimenti non detti, paura, un forte senso di responsabilità. Basterà il sacrificio di una sola persona?