15. Claustrofobia

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Di essersi, per un breve attimo,
amati per sempre.
W. Szymborska, "Prospettiva"

 Szymborska, "Prospettiva"

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Coco
5 Maggio '23

Non avevo mai provato la sensazione di asfissia. Di respiro che scappa dai polmoni, da non riuscire ad afferrarlo coi polpastrelli. Non mi ero mai sentita in gabbia, come un ratto di un laboratorio. Non mi ero mai sentita sola, dimenticata.

Non mi ero mai chiesta cosa significasse morire. Eppure l'avevo detto e immaginato spesso. Avevo sognato il cadavere di mio padre seppur continuasse a battergli il cuore in petto. Avevo seppellito pesci rossi dopo averli meticolosamente asportati dalle loro ampolle. Avevo ucciso zanzare per il puro gusto di dissimulare prurito superficiale.

Era questa, la mia fine? Sarei rimasta una zanzara spiaccicata su una superficie temporanea, spazzata via dal vento assieme alla polvere? O sarei stata l'ennesimo pesciolino rosso scaricato in un tombino qualsiasi?

L'avevo immaginato almeno un tantino più dignitosa. Perlomeno con una bara, non di quelle lussuose, un contenitore di legno adornato da semplici margherite. Che so, una messa, per dirne una. Una lapide con il mio nome scritto con una matita colorata.

Davvero, qualsiasi scenario sarebbe andato bene.

Ma quello, no.

Il rumore assordante dall'acqua che scorreva tra le tubature per giungere a noi e arrotolarci i polpacci come il Diavolo fece con la Vergine Maria, mi faceva disgusto. Non provavo neanche più ad alzarne i piedi, tanto che erano ormai sotterrati in quell'ambiente marino artificiale che si stava creando. La mia mente ringraziò la previdenza di mia madre, che mi aveva sempre procurato protesi waterproof.

Le pareti del vinificatore cominciavano a diventare umide, imbevute d'acqua e del sudore che straripava dai miei pori agitati. Lo spazio era talmente ristretto che eravamo costretti a schiacciare le schiene contro la superficie di metallo, tenendoci con i palmi delle mani aperti a ventosa.

L'acqua ci arrivava alle ginocchia, quando Tobias aveva smesso di provare a sfondare la porta. L'aveva presa a pugni, scalcinata, sballottata. Aveva gridato, ringhiaiato fino a raschiarsi la gola. Le ciocche bionde erano divenute scure per il sudore che gli scendeva dalla fronte e delle piccole gocce scarlatte di sangue scorrevano dalle sue nocche fino alla pantana ai nostri piedi, donandole sfumature rosee, inquietanti e sinistre.

«Basta, Tobias»; la mia voce era un sussurro appena udibile. Trasmetteva il peso della paura che ci avvolgeva, ma era permeata da una rassegnazione cupa. Ogni parola si liberava con un tono fioco e opaco, quasi come se la consapevolezza della mia condizione avesse smorzato persino la mia voce.

Lui non si era arreso. Continuava a fissare i bulloni con insistenza, come se potessero svitarsi da soli all'improvviso. Ispezionava ogni angolo dello spazio, come se non l'avesse fatto già da tre quarti d'ora, come se cambiassero, come se ci fosse qualcosa che gli sfuggiva, ma era impossibile. Era un vinificatore di un metro e mezzo di diametro, sarebbe stato utopico non notare qualcosa. Semplicemente, ci sperava.

DEAR ENEMY - Amore, crimini e altri motivi per cui dovrei lasciare il paeseDove le storie prendono vita. Scoprilo ora