Capitolo 3: Lettere amare

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Rachel fu bruscamente svegliata dal suono stridulo della sirena che squarciò il silenzio della notte, un rumore così violento da farla sobbalzare. Le SS urlavano ordini feroci, costringendo le prigioniere ad alzarsi in fretta e uscire dalle baracche per l'appello. La luna era alta nel cielo, l'aria gelida e tagliente come lame di ghiaccio penetrava nelle ossa e bruciava le pelli esposte. Il freddo, implacabile e senza tregua, era diventato un nemico silenzioso che affliggeva Rachel e le sue compagne di prigionia, rendendo ogni respiro una lotta.

Mentre Rachel si univa al flusso di corpi deboli e stremati che si dirigevano verso il piazzale, potè sentire il freddo insinuarsi sin dentro al midollo, facendole contrarre i muscoli e intorpidendo le estremità delle dita. Le SS furono implacabili, controllando e ricontrollando le file interminabili di prigioniere, contandole ancora e ancora fino all'assurdità. Ogni errore o mancanza venne punito con ferocia, e le donne dovevano rimanere in piedi nel gelo, tremanti e ansimanti, fino a quando le SS non sarebbero state soddisfatte.

Il piazzale era illuminato da riflettori accecanti che gettavano un'ombra spettrale sulle prigioniere. Ogni dettaglio del campo era nitidamente visibile: i contorni delle baracche fatiscenti, i fili spinati che sembravano voler trattenere anche l'ultima speranza, e le torrette di guardia da cui le SS osservavano con occhi di ghiaccio. La loro ossessione maniacale per gli appelli era un tormento costante per le prigioniere, un'agonia che si ripeteva giorno dopo giorno, notte dopo notte. Per Rachel, l'appello sarebbe diventato un simbolo del terrore e della disumanità del regime nazista, un'esperienza che la riduceva alla sua essenza più elementare, un numero. Privandola della dignità e dell'umanità. E mentre si aggrappava all'ultimo briciolo di speranza che le era rimasto, nel buio della notte, una scena terribile si svolse due file alla sua destra.

Una delle ragazze barcollò tremante, segno evidente di una malattia debilitante che aveva contratto nel campo di concentramento. Lo sguardo spaventato della ragazza incontrò quello di Rachel per un istante, prima che fosse afferrata brutalmente da una delle guardie che conobbe in seguito come ufficiale Kappler. Kappler, un uomo sinistro e imponente dai lineamenti duri e senza pietà, fece uscire la ragazza dalla fila e la fece inginocchiare ai suoi piedi con una calma glaciale. Rachel poté solo osservare impotente mentre l'SS alzava la pistola, il suono del clic metallico che tagliò l'aria gelida come una lama affilata.

Un attimo di silenzio irreale seguì, interrotto solo dal battito frenetico del cuore di Rachel. Poi, il tonfo sordo del colpo di pistola squarciò la notte, seguito da un grido soffocato che si perse nell'oscurità. La ragazza cadde senza vita, il suo corpo inerte collassato sul terreno gelido. Rimasero tutte immobili, lo sguardo fisso sulla scena orribile che si era appena svolta. Il terrore serrò la gola di Rachel, mentre le lacrime le rigarono il volto. Quel momento si sarebbe stampato per sempre nella sua memoria, un ricordo vivo dell'orrore e della brutalità di Auschwitz, una ferita aperta nell'anima che avrebbe continuato a bruciare per sempre.

Lenka, con voce appena udibile per non attirare l'attenzione delle SS, sussurrò a Rachel di trattenere le lacrime, avvertendola che avrebbe rischiato di diventare la prossima vittima se avesse mostrato il suo dolore. Così, con il cuore pesante e la mente tormentata, fu costretta ad assorbire il trauma senza poterlo sfogare, imprigionando il suo dolore e la sua angoscia dentro di sé. La rigidità del corpo di Rachel rispecchiava la sua lotta interiore, ogni fibra del suo essere era tesa nel tentativo di mantenere il controllo, di non crollare sotto il peso dell'orrore.

Fortunatamente, quello scempio mattutino sembrò soddisfare temporaneamente le SS, e dopo l'atroce esecuzione, le prigioniere furono spedite ai loro rispettivi reparti di lavoro. Rachel, insieme a Lenka e alle altre ragazze, furono costrette a reprimere il terrore che avevano appena vissuto, mentre si dirigevano verso i loro compiti assegnati nel campo, come una normale giornata di lavoro. Ma nulla era normale ad Auschwitz; ogni giorno era una battaglia per la sopravvivenza, un confronto continuo con la crudeltà e la morte.

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