Suo figlio sta male.
Dante Balestra dovrebbe essere l'ultima persona al mondo ad avere voce in capitolo su questa cosa — non sa neanche se è autorizzato ad accorgersene, o a dire di essersene accorto.
Gli è chiaro che, se Simone ne vuole parlare con qualcuno, quel qualcuno non è certo, e non può essere, lui. Ma non è neanche Manuel, non è Floriana, non è Laura. O almeno, se lo è, non parla neanche con nessuno di loro.
Dante non l'ha mai visto così. Quando Jacopo — quando è successo l'incidente, Simone, nonostante la tristezza, andava a scuola.
Ok, no, a volte marinava con Manuel, ma quello rendeva Dante, se possibile, più sereno. Pensava stesse facendo le esperienze di un ragazzino della sua età. Che fosse normale. Che avrebbe continuato ad essere normale.
E Simone lo è stato — quando Dante se n'è andato e saliva a Roma un weekend ogni due mesi, quando è tornato e hanno ripreso a vivere insieme, quando ha scelto l'università, la sua prima sessione, la laurea, la magistrale, la notizia della malattia di Dante e pure il tirocinio di tre mesi che aveva dovuto lasciare quando l'avevano ricoverato —, era stato normale e aveva gestito tutto. Da solo, come se chiedere aiuto lo svalutasse.
Solo ora Dante si rende conto che il fatto che abbia fatto tutte quelle cose da solo e senza chiedere non è normale per niente.
Lo becca quando torna dalla palestra, ha ripreso ad andare almeno lì. Ci va la mattina presto mentre Dante ancora dorme, ma stavolta non sta dormendo.
Simone entra in cucina, forse per prendere l'acqua, e Dante gli fa un cenno con la testa. "Ciao, buongiorno."
Lui si immobilizza, come se Dante gli avesse fatto un'imboscata — in teoria, però, è quello che è successo. "Ciao."
Forse è meglio non iniziare subito col piede di guerra. "Com'è andata? Stanco?"
Simone alza le spalle. Va ad aprire il frigo, senza nemmeno lasciare il borsone, e prende una bottiglia di succo. "Normale."
Dante annuisce e si beve il cappuccino. "Senti — ti vuoi sedere un attimo, che dici?"
"Devo andare al ristorante."
"Non ti preoccupare del ristorante."
Lo vede tirare forte un respiro, anche se è di spalle. Rimette la bottiglia in frigo, prende il bicchiere e gli si siede di fronte. Non guarda lui direttamente, ma un punto alle sue spalle. Dante deglutisce. Forse proprio perché non lo sta guardando, si sente più giudicato. È abituato alle persone che lo guardano — suo figlio di solito non lo fa. Non è abituato a suo figlio, quindi.
"Mi dici che hai?"
"Che ho?"
"Sei — triste."
Accenna una risata amara. "Dici?"
"Simone," inizia Dante, e scopre che non sa assolutamente che dirgli. Esita. "Senti. Lo so che non sono stato il padre perfetto."
"Pa', senti, non serve che mi fai un discorso."
"No, fammi parlare." Dante strizza gli occhi e arriccia il naso. La luce della cucina è troppo forte e gli gira un po' la testa, ma forse è più lo stress. Gli hanno detto di non stressarsi. "Fammi parlare," ripete. "Prima di operarmi — pensavo non ce l'avrei fatta. Volevo dirti tante cose, in caso non — in caso io — però non te ne ho detta nessuna."
Simone si agita sulla sedia, come se stesse scomodo. "Ma non è successo, quindi..."
"Prima o poi deve succedere. Nessuno è immortale." Il pensiero della morte non lo angoscia quasi più. Non lo angoscia da tanti anni, in realtà. Perdere un figlio e poi andarci incontro tu stesso ti atrofizza la paura. "Mi dispiace." Prende un respiro e si morde l'interno della guancia. "Questa era la prima."
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La Cuenta - Mimmo & Simone
Teen Fiction"Senti - chi è Mimmo?" Lei si gira a guardarlo, e la sua espressione è indecifrabile. "Perché, come lo conosci?" "Non lo conosco. Papà mi ha detto di chiamarlo. Per il ristorante." "Ah." Lei guarda la padella e annuisce tra sé e sé. "Non sapevo fos...