Capitolo 15

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Verso sera Colt Devon uscì e mi ritrovai sola con Ginevra, che nel frattempo si era svegliata. Ci sedemmo al tavolo della cucina – che si trovava in linea retta con il salotto e divisa solo da una serie di arcate che ricordavano il portico di qualche bella villa al mare – e preparammo qualcosa da mangiare, malgrado quello che il frigorifero di un mezzo-demone potesse offrire. Mi domandai di cosa si cibasse Colt e sperai vivamente che il sangue non fosse compreso per la maggior parte nella sua dieta alimentare. Lo speravo davvero.

Passai qualche ora con mia sorella a spiegarle principalmente il perché avremmo dovuto rifarci una vita da capo non appena avremmo trovato la mamma. Ipotizzammo che sarebbe stato meglio andare a vivere all'estero, luoghi in cui non avremmo avuto più di questi problemi. Ma ancor di più speravo di trovare un luogo sulla terra dove non vi fosse nemmeno l'ombra di un demone. Ma questo lo tenni per me perché non volevo terrorizzarla, o almeno, non volevo sembrarle fuori di testa. Rivelarle ciò che da poco tempo avevo scoperto non era così semplice. Forse un giorno lo avrei fatto, ma non lì e non in quel momento.

Alla fine del nostro discorso Ginevra sembrava spaventata e disorientata. Solamente a guardarla potevo capire come fosse dubbiosa e non sapeva se credere a quello che le stavo raccontando. Ridacchiò innervosita dall'idea che un assassino potesse essere alle nostre calcagna, ma sapevo che la sua reazione non era altro che una profonda preoccupazione per ciò che ci aspettava da lì in poi. Comprendeva benissimo che non avrebbe più potuto vedere i suoi amici, che non avrebbe più potuto tornare a scuola e che, soprattutto, non avremmo mai più rivisto casa nostra. Era frustrante pensare a quanti ricordi avremmo dovuto lasciarci alle spalle. Ma almeno eravamo insieme e stavolta glielo dissi chiaramente: «Non ti lascerò mai, Gine. Per ogni cosa io ci sarò. Ma dobbiamo impegnarci, capito?». Lei annuì e infine scoppiò a piangere.

Fu solamente quando Ginevra si fu calmata che Colt ritornò a casa e per un attimo sospettai che avesse aspettato fuori dalla porta per non interrompere il nostro discorso. Con sé aveva un fiore, un'orchidea. Sorpassò il salotto e senza degnarci di uno sguardo entrò in una delle stanze in cui ancora non ero stata. Svoltò appena prima della zona cucina e sparì. Allora mi alzai e lo raggiunsi. Dopotutto era uscito con l'intento di cercare informazioni e morivo dalla voglia di sapere.

Lo seguii e non appena giunsi nella camera un'ondata di aria gelida mi investì facendomi tremare. Era un'altra camera da letto ma molto più sobria, riordinata dalle linee pulite e geometriche dei mobili, e elegantemente rivestita da una chiara carta da parati arabescata. Vi era un profumo leggero che sovrastava l'ambiente e immaginai immediatamente che dovesse essere emanato dalle tante orchidee che erano sparpagliate per tutta la stanza. Orchidee di tante variazioni diverse e colori.

Colt si piegò su un vaso nel quale alcune di esse erano ormai appassite e le sostituì con quell'unica, bella e solitaria orchidea che reggeva tra le dita. Buttò le altre.

Infine si volse e incontrò il mio sguardo incerto.

«Non pensavo fossi un collezionista di orchidee» gli dissi, ma notando la sua espressione cupa mi pentii subito di avergli detto una cosa del genere.

«Non sono mie» spiegò dopo un po'. «Sono per mia sorella».

«Tua sorella? Hai una sorella?».

«Ti sorprende?».

«No, insomma. Non pensavo. E poi perché tutti questi fiori?».

«Perché è morta, poetessa» mi zittì, il suo tono di voce graffiante come vetro scheggiato.

«Non lo sapevo, scusa» feci quasi in un sussurro, mentre con una mano accarezzai uno dei petali. Era vellutato come un velo di seta e la fantastica gradazione di rosa mi ricordava i colori freschi e vivi di un cielo che non vedevo ormai da molto tempo.

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