Capitolo 4

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Una tempesta si stagliava dentro me.

Dubbi, paure, rabbia. I miei sentimenti giocavano con la mia coscienza come se fossi stata una bambola di pezza scucita e gettata in un cassonetto. Un senso di umiliazione mi percuoteva da capo a piedi. Avevo una gran voglia di urlare, di piangere, di sfogarmi. Non pensare a niente per almeno un paio d'ore, spegnere tutto, il nulla più totale. Il dolore mi assaliva violentemente e spudoratamente.

E io non potevo far altro che subire inerme.

Sconsolata.

Priva di ogni energia.

Solamente la lieve pioggerellina che aveva cominciato a cadere sulla città – che ora appariva ai miei occhi come una massa grigia e informe – mi destava da quella terribile sensazione di vuoto con i suoi tocchi gentili e freschi.

Nella mia mente un turbinio di pensieri ruotava intorno ai miei ricordi, e per la prima volta dopo anni ricordai le parole di mio padre che mi disse la notte prima del suo decesso: "Sii forte, Samanta. Sii forte". Quelle parole mi ronzavano della testa simile a un suono tenue, ma ovattato e lontano, come se non ricordassi bene per quale motivo fu spinto a dirmele.

Ma come potevo essere forte? Ero stanca, distrutta, spossata, indignata.

Avevo perso il lavoro che tanto mi era servito per mandare avanti la famiglia. Simbolo, in un qualche modo, della mia tenacia. Della mia voglia di farcela. E ora avevo perso tutto. Mi sentivo ancora più sola di quanto non fossi mai stata.

Forse ora comprendevo lo stato d'animo di impotenza della mamma. Scoprire che tutti i propri tentativi sono stati solamente un abbaglio, un sogno troppo difficile da realizzare. Fumo, solamente fumo e nient'altro.

Camminai per molto tempo osservando qua e là la notte inghiottire i palazzi più alti di Milano, fin quando senza accorgermene, ripercorsi la via del centro città dove troneggiavano i locali notturni più in voga. Una volta ero solita a frequentare quei posti attorniata costantemente da quelli che consideravo miei amici. Adesso erano in chissà quale prestigiosa università straniera a spassarsela, a diventare qualcuno; mentre io non facevo altro che crogiolarmi per le strade senza una meta, ripensando a quanto fosse inutile e patetica la mia esistenza.

D'un tratto mi ritrovai dentro al Metropolitan, seduta ad una delle soffici sedie al bancone. La musica, a quell'ora, rimbombava ancora ad alti volumi, mentre tutt'intorno a me la folla ballava scomposta e senza sosta, disseminata un po' per tutta la sala. Rimasi ad osservare e quasi mi stupii nel notare quanta gente in settimana non rinunciava alla propria serata in discoteca per andare a letto presto. Persone oltretutto di ogni età. A qualche passo da me una ragazza dalla lunga treccia rideva e si baciava con un ragazzo che la stringeva a sé. Poco più in là, un gruppo di ragazzi stavano esibendo il loro fisici da bellocci d'innanzi a delle giovani ed ingenue ragazzine. Potevano avere benissimo l'età di Ginevra. Che schifo!

Sbuffai irritata da quella visione e mi volsi verso il barista, che non smetteva di lanciarmi occhiate di sbieco, attendendo semplicemente che gli ordinassi qualcosa. Gli feci cenno alla lista dei cocktail e ordinai il primo drink che mi capitò sott'occhio.

In meno di quaranta secondi mi ritrovai tra le mani un bicchiere di un intruglio bluastro dal forte aroma di anice. Decisi che quella sera non avrei badato più di tanto alle buone maniere da gentildonna, e tracannai quasi in un sorso tutto il cocktail.

Le luci stroboscopiche proiettavano schizzi di luce colorata in tutto il locale, seguendo il ritmo delle canzoni commerciali e cadenzate, in un insieme che ricordava un dipinto impressionista di Van Gogh: "Cielo stellato". Spirali luminose che erano come onde in continuo movimento. Ombre scure che danzavano con una dinamicità esasperante. Pochi punti fermi.

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