Capitolo 6

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Santo cielo!

"Grazie mille... Samanta"?

Non riuscivo a capacitarmi di ciò che stavo leggendo. Il pensiero che i postumi della sbornia stessero avendo il soppravvento, mi passò per un istante nella mente. Eppure non poteva essere vero. Mi diedi un pizzicotto ma quel messaggio era sempre lì, tra le mie mani in modo inquietante, più vero di qualsiasi altra cosa.

"Grazie mille... Samanta". Rilessi quelle parole più e più volte come per cercare una spiegazione dietro a quel mistero. Ma poi grazie per cosa?

E chi aveva scritto quel biglietto, come poteva sapere il mio nome? Coincidenze?

Beh, poteva essere, tutto era possibile. O forse no.

Mi adagiai stanca e sbalordita allo stesso tempo, sulla panchina che si trovava a pochi passi dal grande faggio dorato. I gomiti appoggiati alle ginocchia tremati, la schiena incurvata in avanti e gli occhi increduli. Stetti in quella posizione a lungo, in una trance provocata dalle mille domande che si erano impossessate di me completamente. Lo sguardo ancora fisso su quel pezzo di carta come se fossi alla ricerca di qualcosa tra le righe che però non c'era.

E poi, talmente concentrata non udii le foglie scricchiolare e subito dopo un'ombra avvicinarsi. Sobbalzai quando mi appoggiò la mano sulla spalla.

Due grandi occhi verde smeraldo custoditi dietro una vecchia montatura d'occhiali vintage. I capelli lunghi e scuri, raccolti stavolta in una coda, gli donavano ancora una volta l'aspetto di un nobiluomo.

«Samanta!» esclamò sorridente Sebastian riconoscendomi.

«Se-sebastian!» mugolai. La voce spezzata dallo spavento.

«Ti ho preso alla sprovvista? Perdonami» si scusò per poi accomodarsi ordinatamente al mio fianco sulla fredda panchina in pietra. Come la prima volta che ci eravamo incontrati, Sebastian indossava un abbigliamento molto distinto, con un paio di pantaloni bianchi di jersey e una giacca blu posta sopra una maglietta grigio perla.

«Come mai da queste parti?» chiesi, mentre guardinga nascondevo il biglietto nella tasca del giubbotto di jeans. Anche se mi ero presa un bello spavento, ero felice di vedere un viso famigliare.

«Ero passato per una passeggiata. E poi perché volevo vedere il luogo del crimine di cui hanno parlato al tg».

«Sei un appassionato di queste cose?».

«Non in particolare. Sto scrivendo un libro, un thriller, e perciò era mia intenzione osservare la scena del crimine. Anche se lo trovo piuttosto spiacevole».

Mentre parlava estrasse dal taschino della giacca un portasigari. Un signore d'altri tempi, in tutto e per tutto. «Ti spiace se fumo?».

Scossi la testa.

«E invece tu, come mai qui?» domandò.

Mi scappò una smorfia stizzita. «Sono in ritardo al lavoro» affermai imbarazzata.

L'aroma intenso del fumo del sigaro iniziò ad spargersi nell'aria, riportandomi alla memoria il profumo speziato di Cuba che mio padre una volta era abituato a consumare.

«E come mai sembra che questa cosa non ti importi?».

«Beh... ecco». Sollevai lo sguardo incontrando nuovamente il suo decisamente più sicuro e affabile, come fosse quello di un vecchio amico. «Sono stata licenziata, a dir il vero. Ho ancora una settimana di lavoro e poi mi daranno la liquidazione».

«Capisco. Non hai molta voglia. Neanche io ce l'avrei».

«Non fraintendermi è per via del mio capo. Permettimi la parola, è uno stronzo. Mi ha licenziata di punto in bianco. E ha anche la bella faccia di ritenersi un buon samaritano!» strepitai alterata al solo pensiero di rivedere Brambilla in quei giorni.

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