Capitolo 7

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   L'odore nauseante di chiuso e di sigaretta arieggiava nell'ufficio buio di Brambilla, illuminato solamente da una piccola lampada che proiettava guizzi di luce sull'arredamento datato.

Sedevo su di una delle poltrone in pelle, rovinate da qualche bicchierino di gin di troppo. Davanti a me vi era una scrivania in legno scuro dove il capo era seduto davanti ad una pila di fogli, e li accanto stringeva tra le mani grassocce le carte del mio contratto lavorativo che firmai quando mi assunse.

Mi aveva fatto chiamare non appena avevo messo piede al Filligan, e la sua insolita cordialità mi fece quasi venire i brividi.

«Questo è il contratto. E questo è il tuo licenziamento. Sai cara, l'ultima volta avevo pensato che ero stato un po' duro con te. Ma oggi, questo tuo rinnovato ritardo, ha solamente consolidato il mio modo di vederti. Non ho mai visto una persona come te, che si impegna così poco per mantenersi il lavoro».

Brambilla mi stava facendo l'ultima paternale come previsto. Pensai che fu l'ultima, perché non ne potevo proprio più ad essere etichettata come un'inutile seccatura.

Mi porse la sua penna in cuoio e oro, e mi fece scivolare sotto la mano il foglio del licenziamento che avrei dovuto firmare.

«Pensavo di aver capito che non eri proprio in una bella situazione, o sbaglio? Pensavo che un lavoro ti servisse. No?».

La rabbia cominciò a salirmi lentamente, mentre firmavo il mio licenziamento. La sua voce mi irritava quanto una puntura di zanzara. Cercai di mantenere la mano ferma e di scrivere il più velocemente possibile. Non vedevo l'ora di andarmene.

«Ma sai una cosa, D'elia: do sempre un'ultimissima opportunità».

Sollevai lo sguardo accigliata e confusa.

Un attimo prima mi stava dicendo di fare le valigie ed andarmene, ed un attimo dopo mi stava dando un'altra opportunità?

La cosa puzzava un tantino. Gli occhi scuri di Brambilla brillarono nella penombra del suo viso rugoso e in carne. Si passò una mano tra i capelli brizzolati e poi continuò.

«Potresti fare anche su dei soldi. I tuoi problemi penso che potrebbero scomparire».

Continuai a guardarlo negli occhi non capendo quel giro di parole.

«Bhé, ecco. Potrei pagarti bene se mi offrissi dei servizi che a nessun altro concederesti, che ne so, una serata a cena. Pagherei ovviamente io. Magari una serata in discoteca, insomma, una bella uscita e magari poi... che ne so, potremmo rientrare a casa e conoscerci meglio. Conoscerci a fondo, intendo. Non sarebbe bello? Rimarremmo amici come prima, come se questo licenziamento non fosse mai avvenuto...» fece strusciando i palmi delle mani in un gesto di poco conto.

«Mi sta dicendo che vorrebbe venire a letto con me?» sbottai in modo indifferente.

«Oh, bè, non avrei detto proprio direttamente così. Sai un po' di romanticismo con le ragazze come te, ci vuole».

Come me? L'arroganza dell'uomo mi faceva imbestialire, come se dovesse per forza classificarmi in una tipologia di donna. E neppure quella più bella, secondo lui.

«Vorrebbe, insomma, portarmi fuori a cena, concedermi cortese attenzioni, farmi magari anche dei regali e risanare il debito che abbiamo in famiglia?» chiesi ancor più fuori dai gangheri.

«Certamente, dovresti solamente concedermi un po' di attenzioni. Insomma, non sarà necessario un orario, potresti decidere tu e credo proprio che non sarà di mattina» rise divertito.

«Sa cosa penso?».

Brambilla mi sorrise, sembrava proprio che aspettasse un . Mi alzai dalla sedia dell'ufficio e lo guardai dritto negli occhi. Le guance mi scoppiarono di un rossore scottante.

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