Capitolo 1

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Hwang Hyunjin:
Stasera ci troviamo al solito bar.
Vuoi venire?

You:
No.

Hwang Hyunjin:
Perché no?
Non farti supplicare Min daiiiii ♡♡

You:
Devo lavorare.
Sono di turno alla clinica.
La dottoressa Han torna tardi stasera.

Hwang Hyunjin:
Sei un bugiardo.
Ho imparato a memoria i tuoi orari
per evitare le tue balle.
So che stacchi alle 19 e so che la
dottoressa non vuole nessuno alla
clinica dopo le 19:30.

You:
Jin ti prego, non mi va…

Hwang Hyunjin:
Ti andrà quando sarai là vedrai.
Alle 19:15 al solito bar, PUNTUALE.
Niente scuse.

You:
Non mi lascerai in pace vero?

Hwang Hyunjin:
Mai. A più tardi ♡

Minho abbandonò il telefono con uno sbuffo sonoro, gettò la testa all'indietro sul letto e chiuse gli occhi. Da una parte l'attaccamento di Hyunjin a lui era adorabile, dall'altra doveva capire che più lo obbligava a uscire e più Minho diventava insofferente. Da mesi ormai aveva intrapreso questa campagna di risocializzazione del soggetto Lee Minho, ma non aveva chiesto al soggetto se fosse d'accordo. Ciò che faceva era premuroso e sapeva che era esattamente ciò di cui aveva bisogno, ma Minho non aveva alcuna voglia di essere reinserito nella società, stava bene dove stava e a nulla era servito sottolinearlo più volte. Hyunjin era convinto che uscire e stare con gli amici avrebbe curato la sua depressione, ma invece otteneva solo di fargli passare lunghe serate ad annuire alle conversazioni che lui, Lixie, Bin e Chris si scambiavano. Ogni tanto chiedevano la sua opinione ottenendo versi e monosillabi di risposta. Nei mesi comunque le volte che era uscito di casa erano per lo meno aumentata, rendendo Hyunjin molto fiero del suo operato e Minho un po’ più tollerante nei confronti della loro presenza. Non poteva definire gli altri tre suoi “amici” come lo era Hyunjin o come era stato Seongjun, ma almeno cominciava a trovare piacevole la loro compagnia, le loro chiacchiere che si limitava ad ascoltare. La compagnia che più di ogni cosa preferiva era però quella degli animali. Fare il veterinario era il sogno della sua vita, aveva sempre amato gli animali più delle persone e mai come negli ultimi mesi preferiva la loro presenza. Silenziosi, non facevano domande, non gli chiedevano come stava, cosa pensava, a loro non doveva spiegare nulla. Se gli volevano bene erano affettuosi, se lo odiavano lo mordevano o graffiavano. Semplice. Lineare. Facile per una persona come lui che della mente umana aveva sempre capito poco. Ruotò la testa e fissò il telefono abbandonato sul cuscino. In fondo a Hyunjin voleva bene e quello sforzo lo avrebbe fatto, anche se la sola idea lo inorridiva. Un pomeriggio con gli animali lo avrebbe rilassato abbastanza da reggere una serata da normale essere umano sociale. Era complicato per Minho capire le persone, avevano troppi pensieri nella testa. Lui era come un animale, Seongjun glielo diceva sempre. O era felice o era arrabbiato o era stanco o era affamato. Un'emozione alla volta. Semplice. Lineare. Rimase a vegetare circa un quarto d'ora sul letto e poi si tirò su. Recuperò il telefono e si vestì per arrivare alla clinica della dottoressa Han in orario. Minho era al terzo anno di veterinaria ed era riuscito ad entrare al tirocinio di una delle cliniche più ambite della sua facoltà. Paga ottima, titolare gentile e che insegnava tanto, orari buoni e tanto lavoro da fare. Ci lavorava da un mese ed era di sicuro il suo momento preferito della settimana. Non aveva fatto amicizia con nessuno, scambiava qualche parola con gli altri ragazzi che lavoravano con lui, solo a tema lavorativo, e stava più tempo che poteva con gli animali, le creature che meglio lo capivano. La dottoressa lo adorava, pensava che avesse un feeling speciale con le creaturine, e gli insegnava tantissimo. Era nel suo paradiso. Quel giorno fu molto contento di svolgere i suoi compiti in totale solitudine e quando la dottoressa gli chiese di dare una pulita alle ultime gabbie accettò volentieri, anche se erano quasi le 19.
“Mi raccomando entro le 19:30 devi essere fuori. Grazie che ti trattieni per finire Minho, sono in debito con te.” gli disse la donna con un sorriso.
Si chiedeva sempre perché fosse così fissata con il fatto che dopo le 19:30 nessuno doveva essere nella clinica a parte lei. Ma non era un problema suo preoccuparsene. La dottoressa lo adorava e lui traboccava di ammirazione per lei, questo era tutto ciò che gli importava.
“Nessun problema dottoressa, lo faccio volentieri.”
Cominciò a pulire l'ultima gabbia sentendo il telefono che vibrava nella sua tasca, perfettamente consapevole di chi fosse, altrettanto convinto di volerlo ignorare. Hyunjin poteva aspettare, era lavoro dopotutto, sarebbe stata la scusa perfetta per ridurre il tempo che passava fuori. Stava per concludere il suo operato quando il gatto nella gabbia ebbe la bella idea di cercare di scappare e mentre lo acchiappava al volo si chiuse la mano nella porticina. Con una imprecazione e fior di labbra, ritirò la mano e chiuse la porticina con un tonfo. Si lasciò cadere a terra, massaggiandosi l’arto dolente, e pensando che quella giornata proprio non andava. Il telefono continuava a vibrare, la sua mano gli faceva male, era stanco, voleva solo andare a casa e il giorno dopo aveva anche lezione presto. Appoggiò la testa sulle ginocchia, cercando di rimettere in ordine i pensieri che aveva nella testa, alcuni dei quali prevedevano di bloccare il numero di Hyunjin di lì a cinque minuti. Sapeva che tutto ciò che stava facendo era a fin di bene. Sapeva che Hyunjin lo amava e che nemmeno a lui piaceva insistere in quel modo. Sapeva che era cambiato per potersi prendere cura di lui e del suo cuore annegato nel buio. Sapeva tutte quelle cose eppure… Eppure non ce la faceva. Non riusciva ad afferrare la sua mano e farsi trascinare fuori da quel buio. Non voleva tornare a vedere, tornare nella luce, voleva solo restare come ora, seduto nel buio, nel silenzio, immerso nei pensieri che da mesi gli diceva “era meglio non fossi più qui”. Non seppe quanto tempo rimase lì seduto, ma ad un certo punto sentì la porta alle sue spalle aprirsi. Fece appena in tempo a sollevare la testa che la persona appena entrata gli finì addosso, inciampò nel suo corpo e con un verso spaventato cadde rovinosamente a terra. La ciotola di ceramica che teneva in mano andò in frantumi. Minho, che era appena stato calpestato, si alzò di scatto e andò verso la persona a terra.
“MA NON GUARDI DOVE VAI?” Imprecò seccato massaggiandosi la schiena. “Non hai visto che ero qui?”
La vittima della caduta, che vide essere un ragazzo più o meno della sua età, si stava alzando in maniera goffa e a quelle parole si voltò nella sua direzione con un'espressione furente. I loro occhi si incontrarono e Minho si rese conto che lo guardava, senza vederlo. Era cieco. Il ragazzo si ritrasse, raggomitolandosi come un riccio sulla difensiva.
“CHE CI FAI ANCORA QUI? A quest'ora nessuno dovrebbe essere qui. Chi sei? Che ci fai qui? Perché stavi lì a terra in silenzio? Sei un ladro?”
Sembrava spaventato, cercava di capire dove fosse Minho e di mettere della distanza tra loro. I suoi occhi giravano per la stanza senza focalizzarsi su nulla, senza poter fissare nessuna immagine. Minho si sentì terribilmente in colpa. Allungò una mano, ma quando sfiorò l'altro quello si ritrasse come avesse preso la scossa.
“DIMMI CHI SEI E NON TOCCARMI!”
Minho ritrasse la mano e cercò di non rispondergli male, immaginando come dovesse essere per l'altro quella situazione. Era cieco e qualcuno che non conosceva l'aveva appena aggredito verbalmente, doveva essere spaventato a morte. I suoi movimenti erano goffi e non sembrava avere nessun punto di riferimento, appariva completamente spaesato e questo gli fece pensare che non fosse abituato a quella sua condizione. Non l'aveva mai visto alla clinica. A guardarlo bene era un ragazzo che doveva essere poco più piccolo di lui, capelli ricci spettinati, viso tondo e guance morbide. Era carino, aveva un aspetto adorabile, se ne sarebbe ricordato se lo avesse visto prima.
“Scusami. Ti ho spaventato. Non sapevo che…”
“Fossi cieco?”
“Già. Scusa.” Fece una pausa e continuò. “Sono un tirocinante che lavora qui, mi chiamo Minho, mi sono trattenuto per finire alcune cose e stavo per andare via.”
L'altro ragazzo assunse un'aria sospettosa.
“Tutti qui sanno che alle 19:30 se ne devono andare, non hai guardato l'orologio?”
“No, ero assorto nei miei pensieri.”
Un'occhiataccia mentre metteva ancora più distanza tra loro.
“Dovresti usare meglio gli occhi, tu che li ha buoni.”
Minho non era noto per essere una persona paziente e tollerante e quel ragazzo possedeva un'acidità rara.
“Il fatto che tu sia cieco non è una scusa per essere antipatico. Non ti funzionano gli occhi, ma la lingua vedo che ti funziona fin troppo bene.”
L'altro rimase stranito da quella risposta così schietta, ma in un qualche modo sembrò quasi apprezzarla. Il suo corpo si rilassò appena e smise di cercare di allontanarsi. Era chiaro che il tono lo aveva disturbato, ma era come se quella schiettezza improvvisa lo avesse messo a suo agio.
“A te non hanno insegnato il rispetto per i disabili?”
L'ultima parola gli uscì strascicata, quasi non volesse pronunciarla.
“A me hanno insegnato il rispetto per chi se lo merita, cieco o vedente che sia, e tu sei un po’ troppo acido per i miei gusti. Ti ho chiesto scusa, principessa sul pisello.”
L'altro sembrò pensarci un attimo, soppesare le sue parole, infine annuì. Il suo intero corpo si rilassò e cercò con una mano qualcosa a cui aggrapparsi.
“D’accordo te ne dò atto, non sono più abituato a stare in mezzo alle persone. Sei scusato. Ora per favore va via.”
Fece per alzarsi, facendo leva con le mani sul reticolato di una gabbia, e Minho notò qualcosa che gocciolava. Si avvicinò senza toccarlo, visto che non poteva vederlo, e si accorse che la mano del ragazzo aveva un grosso taglio che sanguinava. Si schiarì la gola, per fargli sapere che era vicino, facendolo sobbalzare, e poi allungò la mano e gli prese il polso, tirandolo su insieme a sé. Quando lo mise in piedi cercò di sfilare il polso dalla sua presa, ma Minho lo trattenne.
“Lasciami.”
“Ti sei tagliato, principessa. Sanguini.”
Il ragazzo strattonò la mano finché Minho gliela lasciò andare e la toccò, avvertendo l'umido del sangue.
“Non chiamarmi principessa. Mi chiamo Han Jisung, usa il mio nome.”
“Non senti dolore?”
“Sono abituato, mi succede spesso. Non ci faccio più caso.”
Ma Minho non era convinto di quella affermazione. Gli sembrava di aver a che fare con un animale particolarmente capriccioso, solo che questo aveva anche l'aggravante che poteva parlare. Poi un lampo gli attraversò la mente. Jisung…. Han???
“Sei il figlio della dottoressa?”
Lui annuì.
“Vengo sempre qui la sera, quando non c'è nessuno, perché voglio stare con gli animali. Non amo più stare con le persone, mi mettono a disagio, per questo mia madre chiede a tutti di andarsene.”
Fantastico. Quindi non solo aveva violato l'orario che gli era stato imposto, ma aveva anche menomato la mano del figlio del suo capo. Bravo Minho, che giocata. Doveva assolutamente fare qualcosa.
“Lascia che ti disinfetti la mano, visto che è colpa mia, poi chi si è visto si è visto e a mai più, Jisung.”
Sottolineò il nome con veemenza per stuzzicarlo e l'altro se ne accorse, gli fece una smorfia e poi si fermò a riflettere, con la mano che gocciolava sangue. Infine annuì. Minho si premurò di raccogliere i cocci a terra e poi allungò la mano e la appoggiò sul suo braccio, attese che Jisung dicesse qualcosa, ma siccome non lo fece lo guidò fuori e per tutto il tragitto, senza avvicinarsi mai troppo. Si sentiva come quando lavorava con la dottoressa, trattando un animale diffidente e aggressivo. Lo fece sedere sul tavolo dell'ambulatorio e tirò fuori dalla cassetta del pronto soccorso che usavano quando qualcuno veniva ferito da un animale tutto quello che gli serviva. Jisung sembrava essersi notevolmente rilassato in quei minuti e non lo guardava più con diffidenza. Intorno a loro c'era il totale silenzio, la clinica era vuota, a parte la dottoressa nel suo ufficio al piano di sopra, c'erano solo loro e i versi degli animali.
“Hai ritirato gli artigli ora? Non mi spari più veleno addosso?”
“Che battute divertenti, aspirante veterinario. Mi sono ricordato di te, ti ho sentito nominare. Lee Minho, il preferito della dottoressa. Ora che so che non sei un criminale o un ladro o un pazzo omicida non sei più così spaventoso.”
Suo malgrado Minho rise e intravide un sorriso anche sul volto dell'altro, che però morì subito.
“Sai, non ti vedo, non posso riconoscere chi sei.”
Dopo quella affermazione abbassò lo sguardo e ammutolì. Lasciò che gli prendesse la mano e ci appoggiasse il cotone imbevuto di disinfettante senza fiatare. Chiuse gli occhi e strinse le labbra.
“Mi dispiace, brucia un po’, porta pazienza.”
“Non importa, sono abituato.”
Minho pulì meticolosamente la ferita e prese a bendarla.
“Continui a dirlo, ma cosa intendi?”
Jisung mosse la mano libera e sollevò la maglietta. Una costellazione di graffi e lividi gli decorava tutta la pancia e il petto. Allo stesso modo fece con le maniche della maglia, mostrando segni simili. Minho le guardò con angoscia e fu contento che Jisung non potesse vederlo. Aveva intuito che il venire compatito non gli piacesse.
“Sono cieco, non vedo dove vado, mi faccio male spesso.”
“Non hai qualcuno che ti aiuta?”
Jisung scosse la testa con decisione.
“Non voglio nessuno. Mi fa sentire ancora più disabile di quanto sia avere qualcuno che mi fa da badante. Mi fa sentire meglio cadere e farmi male che avere qualcuno che mi accompagni anche in bagno. E poi non mi fido di nessuno, non posso sapere cosa faranno quando non li vedo. Le uniche persone che mi poteva aiutare si stavano distruggendo per stare con me. Nella mia condizione sono solo un peso, preferisco gestirmela da solo.”
Minho ci pensò su e avvertì un senso di famigliarità. Se fosse stato lui al suo posto avrebbe probabilmente fatto lo stesso. Era esattamente quello che faceva negando l'aiuto di Hyunjin, nonostante dentro di sé sapesse di avere bisogno di quell'aiuto. Da quando si era chiuso in casa e in se stesso era diventato solo un peso, un peso che teneva Hyunjin stretto a sé impedendogli di vivere serenamente. Hyunjin che era sempre preoccupato per lui, che cercava in tutti i modi di portarlo fuori e che lui cercava in tutti i modi di allontanare, per il suo bene, ma forse non era abbastanza generoso come quel ragazzo e non riusciva a lasciarlo andare. Non si rese conto di avergli sorriso, pervaso da quel senso di “ti capisco”, un sorriso che non poteva vedere.
“Sei una persona orgogliosa. Lo sono anche io. Ma così ti resteranno dei segni permanenti. Anche la mano, è un taglio profondo.”
Finì di fasciarla e Jisung la ritirò, massaggiandola.
“Lo sai qual è il bello di essere cieco? Non posso vedere come mi guarda la gente, ho smesso di preoccuparmi di come appaio, tanto anche volendo non so più che aspetto ho.” sorrise, un sorriso amarissimo. “Immagino che debba considerarlo un punto a favore…”
Minho non sapeva cosa dire, ma Jisung non gli diede il tempo di pensarci.
“È successo molto in fretta, quando ho iniziato a vedere sfuocato pensavo di avere tempo, invece nel giro di un mese è diventato tutto buio. Mi dicono che gli altri sensi compenseranno, ma al momento mi sento solo come se fossi sempre ad occhi chiusi, come prima ma con gli occhi chiusi. Non è come nei libri, non posso vedere con le mani o con le orecchie come mi dicono, è tutto falso, sono tutta cazzate. Vivo nel buio e basta. Se esco di casa sento solo una cacofonia di suoni disconnessi, non capisco da dove arrivano. Tanti odori, tutto di mescola. È come essere investito da una tempesta in una notte buia, senza luna, non vedi niente, ma vieni sballottato di qua e di là. Per questo non voglio uscire o incontrare le persone. Avevo due amici, i miei migliori amici, che mi stavano sempre vicini, ma anche quello era troppo. Non gli avevo chiesto di restare, di sacrificarsi per me, non volevo che succedesse, quindi li ho allontanati. Vorrei solo smettere di esistere, ma non posso farlo, perciò ho messo in pausa la mia vita e non ho più voluto vedere nessuno. Ti sembrerò un disadattato sociale, oltre che disabile…”
Glielo raccontò spontaneamente, senza che glielo chiedesse, e Minho si chiese come mai. Come mai da odiarlo un attimo prima era arrivato a fargli una confidenza così personale. No, non lo sembrava. Minho lo capiva. Minho sapeva cosa provava. Uscire e sentire che il fuori era troppo, che il mondo era troppo. Uscire e non voler vedere che il mondo andava avanti, che continuava a girare quando lui avrebbe voluto una pausa, che tutto si fermasse, che tutto sparisse, che lui stesso sparisse. Sapeva cosa provava. Avrebbe voluto dirglielo, ma il telefono riprese a vibrare e Jisung sollevò lo sguardo.
“È da prima che vibra, rispondi.”
Minho fece una smorfia e alla fine ripose.
*DOVE SEI? AVEVI PROMESSO, SEI UN BASTARDO*
“Ciao anche a te Jin. Sì lo so, scusa, sono stato trattenuto a lavoro.”
*BUGIARDO. La dottoressa non vuole nessuno dopo le 19:30. Se sei a casa giuro su Dio Min...*
“Non sono sordo, non urlare!”
Allontanò il telefono dall'orecchio mentre Hyunjin continuava a insultarlo. Jisung lo guardava incuriosito e a tratti divertito. Allungò una mano nella sua direzione.
“Posso?”
Perplesso, Minho gli passò il telefono.
“Ehi ciao. No non sono Minho, sono uno che lavora con lui. È successo un incidente, mi sono fatto male, il tuo amico mi ha aiutato. Sai sono cieco, ho bisogno di aiuto. Mh. Mh mh… Eh immagino, non ha un bel carattere. Ah… sì ora arriva. Sì colpa mia. No no, tranquillo, chiamarlo bastardo penso sia accurato. Sì glielo dico. Ciao.”
E gli allungò il telefono, anche se nella direzione sbagliata. Minho glielo prese di mano con un'espressione risentita.
“Ti sei messo a fare comunella con lui?”
“Dice che sei un bastardo, che lui si sforza di farti uscire, ma tu non vuoi. Che ha buone intenzioni che tu non capisci e che hai un brutto carattere.”
Minho infilò il telefono in tasca e sospirò.
“Lo so. Ma non capisce che io non voglio uscire… È come dici tu, fuori è troppo… caotico. Io so cosa provi, anche se non sono cieco. Ma sai è brutto anche così perché da fuori sembri normale e tutti credono che tu sia okay, ma non sei okay. Tutto è andato avanti, ma io sono rimasto fermo, non sono pronto ad andare avanti, non voglio nemmeno farlo. Ma lui non capisce. Io non voglio che faccia questo per me, non vorrei deluderlo, trattarlo male, ma non… non ce la faccio.”
Jisung alzò la testa e lo cercò, aveva l'impressione che avesse capito che anche a lui era successo qualcosa, ma non disse nulla a riguardo, perché non c'era nulla da dire. Cadde un silenzio pesante tra loro. Minho abbassò lo sguardo, a disagio, poi avvertì la mano di Jisung che cercava il suo braccio. La sua mano si appoggiò goffamente sul suo gomito e lo strinse. I suoi occhi lo cercarono ancora, anche se non sapevano dove trovarlo.
“Lo so. Non serve essere ciechi per vivere nel buio.”
E Minho seppe che lo sapeva davvero. E si sentì capito come mai in quei mesi, da quel giorno. Quel ragazzo che quindici minuti prima avrebbe preso a schiaffi, ora gli sembrava l'unica persona al mondo che capisse che cosa provava. Il buio che vedeva ogni giorno era quello che Minho sentiva dentro di sé. E improvvisamente in quel buio non era più da solo. Fu come se Jisung fosse entrato nella stanza buia dove si trovava e invece di cercare di trascinarlo fuori, come faceva Hyunjin in buona fede, si fosse semplicemente seduto accanto a lui. Ci fu un lungo silenzio in cui fu certo che anche Jisung provasse quello che provava lui. Poi il minore ritirò la mano.
“Però dovresti andare, sono stanco di averti intorno.”
Minho rise.
“Hai appena distrutto il bonding moment.”
“Non ti allargare, non c'è stato nessun bonding. Dopo oggi non ti vedrò più, Lee Minho.”
Però Minho non se la sentiva di chiuderla così, improvvisamente provava interesse per quel ragazzo che aveva giudicato così odioso. Si sentiva a suo agio con lui.
“Mi dai il tuo numero? È per sapere come va la tua mano e se tua madre mi licenzierà per aver rovinato il suo erede.”
Jisung sembrò titubante. Fece vagare gli occhi per la stanza come se stesse combattendo dentro di sé.
“Il numero? Non sento nessuno al telefono da quando ho silenziato Minie e Innie. Non credo sia il caso…”
Ma Minho non si voleva arrendere. Non dopo quello che era appena successo.
“Se dovessi restare di nuovo fino a tardi ti potrei avvisare. E poi… mi piace parlare con te.”
Jisung apparve perplesso.
“Parlare con me? Non ero antipatico?”
“Mh. Diciamo che siamo più simili di quello che pensavo. Non ti è piaciuto parlare con me?”
Ci pensò su, poi alzò la spalle.
“In effetti è stato piacevole. È stranamente facile parlare con te. Forse perché non so niente di te, non ti devo niente, eppure mi sento come se capissi.”
Dieci minuti dopo Minho se ne stava andando con il numero di cellulare di Han Jisung salvato nella rubrica.
[...]
Arrivò al locale con quasi un'ora e mezza di ritardo. Hyunjin normalmente sarebbe stato furente, ma le parole di Jisung lo aveva placato perciò quando lo vide arrivare gli chiese come stava il suo collega, si rallegrò che avesse finalmente conosciuto qualcuno e lo invitò a sedere con gli altri. Al tavolo erano già seduti Chris, Changbin e Felix. Accanto a loro c'erano due ragazzi che non aveva mai visto.
“Minho, loro sono Seungmin e Jeongin, li ho conosciuti in facoltà tempo fa e stasera li ho invitati.”
Minho strinse la mano ad entrambi e non ebbe nemmeno il tempo di risentirsi con Hyunjin per aver invitato sconosciuti quando sapeva che Minho non ne aveva mezza di conoscere gente nuova perché ancora pensava al suo incontro con Jisung.
“Ma quindi che è successo? Un tuo collega si è fatto male?” Chiese Felix preoccupato. “Sta bene? È stato un animale?”
“Ma non venite tutti cacciati alle 19:30 di solito dalla clinica? La dottoressa Han è categorica.” si aggiunse Chris.
I due sconosciuti si voltarono a guardarli, ma Minho non ci fece caso.
“Da quando hai un collega cieco??” domandò Hyunjin sorpreso.
A quelle parole il più alto dei due sconosciuti si alzò di scatto e fissò Minho negli occhi. Minho si ritrasse, colto alla sprovvista, e tutti sobbalzarono sorpresi.
“Come si chiama il tuo collega?”
I suoi occhi bruciavano e Minho era perplesso e seccato da quel tono pretenzioso.
“Perchè me lo chiedi? Che ti importa? ”
Ma l'altro lo ignorò.
“Si chiama Han Jisung?”
Perplesso, sempre più perplesso, Minho annuì. Il ragazzo di nome Seungmin spalancò gli occhi e poi avvampò. Si voltò verso il suo amico di scatto.
“Non usciva più di casa. Non voleva vedere più nessuno e ora va alla clinica? E non ci dice niente?”
Non attese una risposta. Prese il telefono e iniziò a scavalcare gli altri.
“Minie aspetta, non essere precipitoso.” Gli disse il suo amico cercando di fermarlo.
“Non cercare di fermarmi Innie, devo capire che cazzo succede.”
Il più basso si inchinò e si scusò ripetutamente, prima di inseguire il suo amico fuori dal locale.
Minie. Innie. Oh cazzo.
Minho imprecò nella sua testa. Le quattro teste rimaste si voltarono a guardarlo interrogative e Hyunjin scosse la testa chiedendogli che cosa diamine avesse combinato.
Ma quanto è piccolo il mondo?

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