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Sentii i passi di Alex dietro di me mentre correvo fuori dalla porta di casa sua. Arrivata al giardino, mi voltai: i suoi occhi si stavano lentamente riempiendo di lacrime, ed era evidente che stava cercando di trattenersi come meglio poteva.

"Te ne vai così?" mi disse, con la stessa voce fredda del nostro primo incontro.

"Cosa dovrei fare? Vogliamo cose diverse, Al"

"Credevo che volessi lottare per noi, così come sto facendo io. Hai intenzione di tenermi lontano da nostro figlio? Quale madre farebbe mai una cosa del genere?"

"Smettila, Alex - il mio labbro iniziò a tremare, il mio corpo stava lentamente cedendo al proprio peso - sai che non è questo quello che voglio. Ma non voglio neanche vivere a Nottingham per sempre. Sei tu che mi hai dato un ultimatum, e io ti sto dando la mia risposta"

"Ah, sì? Questa è la tua risposta? Scappare è la tua risposta? Perché è questo che stai facendo, Lucille. Stai scappando da tutto e da tutti" chiese secco, con un tono convinto di avere ragione.

"Sto rincorrendo i miei sogni, esattamente come hai fatto tu. Io ti sono stata accanto in tutti i momenti, sia belli che brutti. Non credevo di pretendere così tanto quando ti ho chiesto di fare la stessa cosa" confessai.

"Anche se ti dicessi di sì, ti sembra questo il momento giusto per trasferirci a Londra? Io nel giro di un mese partirò per il tour, che ne sarebbe di noi?"

"È incredibile come abbia pensato anche solo per un momento di fidarmi di te. Non hai mai preso in considerazione l'idea, vero? È stato un 'no' sin dall'inizio". Alex sospirò "Scusami se non sono disposto a mettere da parte i miei sogni per i tuoi"

"È esattamente questo il problema - sospirai - neanche io".

Aprii la macchina e mi sedetti al posto dell'autista:

"Se metti quella macchina in moto, assicurati di non tornare" disse lui, e io sentii il mio povero, fragile cuore spezzarsi a metà.

Eccolo, l'ennesimo ultimatum.

Eccolo, il punto di rottura.

Cercai di trattenere le lacrime che stavano già iniziando a formarsi nella parte inferiore dei miei occhi, e con lo sguardo fisso sul suo viso risposi:

"Tranquillo. Non lo farò"

La verità, mio caro lettore, è che non mi sono mai pentita della scelta che ho fatto. Non perché ho accettato l'offerta di Londra (ne sarebbero arrivate altre, prima o poi), ma perché nel profondo sapevo che trasferirmi dall'altra parte del Paese sarebbe stato mille volte meglio che dover rivedere Alex sapendo che non era più mio.

* * *

Ci misi poco a impacchettare le poche cose che volevo portarmi con me. Nel frattempo pensai alla mia famiglia: Alex, tornato in casa, gli aveva già dato la notizia della mia partenza. Anche se non avevo avuto tempo per salutare nessuno, non avevo di certo intenzione di tirarmi indietro tanto presto.

Sarei tornata dalla mia famiglia, fu una delle cose che promisi a me stessa.

Avrei spiegato tutto a Stacy e Kate quanto prima.

Avrei chiesto scusa a Philip, perché sapevo che le cose tra lui e Alex non sarebbero più state le stesse da quel momento in poi.

Mi presi un secondo per salutare la mia casa: quelle quattro mura avevano ospitato i primi diciannove anni della mia vita. I miei primi passi erano stati in quel salotto. Il mio primo giro in bici, in quel giardino. Il mio primo bacio, in quel portico.

Tutto di quella casa mi ricordava di Alex. Tutto di quella città mi ricordava di Alex. E Alex era l'ultima cosa a cui volevo pensare in quel momento.

Feci un paio di chiamate e nel giro di un'ora ero nella Nottingham Railway Station con una valigia stretta saldamente in una mano e un biglietto di sola andata per Londra nell'altra. Arrivai nella capitale a notte fonda e presi una camera per il primo hotel che incontrai.

Mi buttai sul letto incurante del rumore e della sporcizia che i miei vestiti avrebbero portato nelle lenzuola. Una relazione di quasi un anno con un germofobico mi aveva portato a pensare subito a cose come quelle.

E stavo di nuovo pensando ad Alex.

Dopo una lunga doccia bollente e un paio d'ore passate a disperarmi, decisi di girovagare per l'hotel in cerca di un po' di sonno. Scesi le scale e nella hall trovai solamente il guardiano di notte, stravaccato sulla sedia dietro al bancone e intento a compilare le parole crociate mentre fischiettava una canzoncina che non riconobbi. Feci talmente piano da non essere sentita, ma non appena mi vide si drizzò in piedi, ricomponendosi nella sedia girevole con dei manici che sembravano troppo stretti per lui.

"Va tutto bene con la sua camera, signorina Clarke?" mi chiese.

"C-Come sa il mio nome?" balbettai indicandomi, come se non ci fossimo solo noi due nella stanza. L'uomo, la cui targhetta segnava il nome 'Lewis', sembrava avere sui cinquant'anni, era paffuto e non poteva essere tanto più alto di me. Al posto di rispondere si limitò ad indicare con lo sguardo la mia mano, dal cui dito indice penzolava la chiave della mia stanza: il numero 505, anche se piccolo, era perfettamente leggibile dalla sua postazione. Sorrisi imbarazzata, indecisa se chiedere scusa per la poca fiducia oppure continuare la mia passeggiata notturna in silenzio.

Mentre mi voltavo, il mio sguardo cadde su un pianoforte a coda:

"Posso suonarlo? O è troppo tardi?"

"Faccia pure - rispose con un sorriso - I muri sono spessi, quindi dalle camere nessuno sentirà un suono. Non lo toccano mai, non so nemmeno se sia ancora accordato oppure no". Mi avvicinai lentamente allo strumento, mentre lo studiavo: si poteva vedere un lieve strato di polvere sui tasti e sul leggio, evidente indicatore del poco utilizzo. Mi sedetti sullo sgabello e iniziai a pigiare un paio di tasti, come mi facevano fare da bambina per verificare l'accordatura.

Dopo aver verificato che fosse tutto a posto, iniziai a suonare la prima canzone che mi venne in mente, un preludio di Chopin. Chiusi gli occhi, concentrandomi unicamente sulla musica, che sapevo a memoria; li riaprii solamente quando la mia quiete fu interrotta dal fragoroso applauso di Lewis. Mi voltai di scatto verso di lui, che capì l'errore e si interruppe subito.

Nelle settimane che passai al Green Light Hotel tutte le sere iniziai a scendere nella hall e suonare il pianoforte, con l'autorizzazione di un Lewis sempre contento di vedermi. Ben presto, iniziai a comporre nuova musica, dato che le mie vecchie canzoni d'amore erano inutilizzabili. In quella stanza composi la maggior parte del mio album di debutto, tra lacrime e applausi del custode che divenne un mio amico fidato in uno dei momenti più bassi della mia vita.

You gave me love, you gave me fire,

But it's time for me to go.

You know I had to fly away,

I'm a butterfly leaving its place.*

nota:

*traduzione: (da Butterfly, Lucille Clarke)

Mi hai dato amore, mi hai dato fuoco,

Ma è ora per me di andare.

Sai che ho dovuto volare via,

Sono una farfalla che lascia il suo posto.

A Certain RomanceDove le storie prendono vita. Scoprilo ora