7. Parlare apertamente

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Ciao belle/i, vi chiedo il favore di lasciare una stellina se il capitolo vi è piaciuto e se vi va un feedback nei commenti.
Baci, vostra Nyliæ ❤️

Nikolay

«Dottor Anderson, questo è stato il suo ultimo appuntamento, ma c'è qui un ragazzo per lei. Insiste per vederla» la segretaria tiene la porta socchiusa mentre parla con il dottore.

Deve averla assunta da poco, non mi sembra di averla vista qui prima. È una donna sulla quarantina, molto attraente, indossa abiti formali e il suo tono di voce è gentile. Ormai è un mese che non vengo. Ho saltato le ultime tre sedute a causa dei miei impegni con lo studio.

Questa è la scusa ufficiale.
Cazzate.

«Non ha un appuntamento» le sento dire.

La mia mente non mi dava tregua e la mia voglia di venire era pari a zero. Il dottor Anderson quasi ad ogni seduta prova a scavare nella mia mente e fa schifo, perché dopo mi sento immensamente scombussolato.

Trova più di un muro davanti a sé e so che così facendo sto deludendo mio padre, i miei fratelli e perfino il dottore, lo leggo nei suoi occhi. Vorrebbero tutti che io ritorni normale, ma non so se riuscirò mai a farlo. È per questo che ho continuato le sedute, non sono obbligato a venirci, delle volte ne salto qualcuna, ma lo faccio per la mia famiglia.

Le sedute non sono sempre pesanti, quando il dottor Anderson non fa leva sulla mia amnesia colloquiamo della mia giornata e di come mi senta; solo con lui mi sento libero di spiegare davvero quello che provo. Lui mi capirebbe, dopotutto è uno psicologo affermato.

«Sono io dottore» sfilo davanti a lei oltrepassandola.

Sono suo paziente ormai da quindici anni, non è più un estraneo per me. Cerca sempre di mantenere un rapporto molto professionale, ma abbiamo preso confidenza e mi riserva un trattamento speciale. Ad esempio, non prende mai appunti con me, affrontiamo semplicemente una conversazione, in cui lui mi osserva in ogni mio movimento, ma non scrive nulla, perché mi infastidirebbe.
Mi sentirei analizzato.

Negli ultimi anni poi prova a calcare di più la mano con me, mi parla in modo più schietto lasciando trasparire più emozioni prima che inizi la seduta, a differenza di mio padre che ha sempre paura di una mia reazione e mi lascia passare qualsiasi cosa. Poi si distacca quando la seduta inizia per davvero.

«Uh chi si rivede, ragazzino ti ho cercato per un mese intero» mi sgrida, ma con un sorriso sulle labbra.

Crede molto nella costanza del suo lavoro e nel nostro dialogo. Forse se lo ascoltassi di più le cose andrebbero meglio, ma non sono solo in questa cosa. La mia mente decide per conto suo. Mi mostra cose e mi trasporta in mondi diversi e non riesco a controllarlo. 

«Impegni universitari» mento.

«Puoi andare a casa cara, me la vedo io con il ragazzo» si alza in piedi.

«Allora a domani dottore, buon lavoro» saluta lei cordialmente.

Il suo studio è piuttosto grande, diversi libri sulla psicologia costernano la parete rinchiusi in un'ampia libreria; proprio difronte si trova la sua scrivania in vetro rigorosamente ordinata, con la targhetta con il suo nome sopra. Il restante dello spazio è occupato da un immenso divano e due poltrone separate da un tavolino. Infine l'immensa finestra riflette la luce sulle tre piante che l'accostano. Mi sistemo al mio solito posto sul divanetto e lancio un ultimo sguardo alla segretaria. Un sorrisetto mi spunta sulle labbra.

«Ti ha mangiato con gli occhi» sghignazzo.

«Come?» dice Anderson spaesato mentre prende posto davanti a me.

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