Capitolo quindici

22 3 0
                                    

Blake

Siedo sulla riva del lago, circondato da nebbia e silenzio. L'aria è densa, fredda, quasi pesante; ogni respiro si trasforma in una coltre che sembra stringermi la gola. Alzo lo sguardo verso il lago, ma tutto si dissolve in una massa grigia e indistinta.

Il cielo e l'acqua sono un unico manto cupo, senza confini, senza direzioni: uno specchio del mio stesso vuoto.
Le onde scure lambiscono la riva, ritmiche, come un battito lento e inesorabile, un sussurro di storie troppo antiche, troppi ricordi. Ogni suono è un'eco della mia solitudine.

Mi stringo le ginocchia, cercando di trovare un appiglio, qualcosa di solido da cui attingere forza, ma non c'è nulla qui, solo me stesso e questo silenzio che mi risucchia.

Non so se qualcuno possa vedermi in questa oscurità – non che importi, davvero. Sento il graffio che mi brucia sulla guancia, un dolore fisico che si mescola al resto, alle cose che dentro di me non trovano pace. Le cicatrici visibili sono niente rispetto a quelle che porto dentro; loro non svaniranno mai.

Il lago mi osserva, muto, e io gli restituisco uno sguardo pieno di rabbia e tristezza. Da quanto tempo mi trascino questo peso? Vorrei poter sparire dentro quella nebbia, dissolvermi come il giorno che muore. Mi sento perso qui, come se fossi io stesso un'ombra, perso nel crepuscolo, un riflesso del buio.

Flashback: quattro ore prima

Sono in aula di musica, le dita appoggiate sulle corde della chitarra. Provo a concentrarmi, a lasciarmi assorbire dal pezzo che ho davanti, ma ogni nota sembra distante, come se appartenesse a un altro mondo.

La professoressa Morgan mi osserva con quel solito sguardo fiducioso, quasi entusiasta, mentre posa un foglio di spartito proprio davanti a me.
<<Il brano si chiama "A mia madre",>> dice con un mezzo sorriso. <<Avanti, Blake, comincia a leggere le note.>>

Sento un nodo stringermi lo stomaco, d'improvviso, come una morsa gelida che mi paralizza il respiro. <<No,>> sibilo a denti stretti, cercando di contenere l'ondata di emozioni che si è già sollevata.
<<Come?>> domanda, confusa. Non capisce – non può capire cosa significhi per me sentire quelle parole.

La guardo dritto negli occhi e ripeto, più forte: <<No.>>
<<Avanti, Blake, perché no? È un brano ricco di significato...>>
Non le lascio neanche finire la frase. Senza nemmeno pensarci, spingo il leggio con violenza, facendolo rovesciare; gli spartiti volano a terra, dispersi. La chitarra cade accanto, con un clangore assordante che rimbomba nella stanza vuota.

La professoressa fa un passo indietro, lo sguardo atterrito, come se vedesse qualcosa in me che le fosse estraneo.
<<Io esco, ti lascio tutto il tempo che vuoi...>> balbetta, arretrando fino alla porta e chiudendola in fretta dietro di sé.

Rimango lì, solo con la mia furia che sembra crescere, ingigantirsi dentro di me, tanto da non riuscire a contenerla. Spingo tavoli, getto a terra qualsiasi cosa riesca a colpire. Ogni oggetto che cade, ogni rumore che riecheggia è come un grido che non riesco a trattenere, una voce che urla la mia rabbia e il mio dolore.

Il titolo di quel brano... una lama che mi ha trafitto senza pietà. A mia madre. Un colpo che riapre la ferita mai chiusa, l'assenza che non so e non voglio affrontare. Mia madre è morta, e io continuo a vivere in questo vuoto insopportabile, in questa assenza che non mi lascia tregua.

Alla fine mi accascio a terra, esausto, circondato dai resti di ciò che ho distrutto. La rabbia si dissolve, lasciando solo il dolore nudo. Chiudo gli occhi e sento i singhiozzi che salgono dal petto, soffocati e tremanti, un lamento sommesso che riempie la stanza vuota. Sento il vuoto che mia madre ha lasciato.

Frammenti d'Anima Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora