La mezzanotte (parte uno)

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Io non ci credo. Davvero c'è una voliera immensa nel giardino di Betta. E due poveri cristi vestiti di bianco e di piume stanno svolazzando sul trapezio a tempo di musica.

Alcune dame ottocentesche, in abiti nivei, requisiscono i giacconi e ci consegnano delle sciarpe di lana bianca, perché parte della festa sarà all'aperto. Gli alberi nel giardino sono addobbati con ghirlande di piume e perle.

Filippo mi spia, preoccupato, perché ha capito che stasera non lascerò correre, e che vorrò ogni risposta. Lo ha capito bene, prima, in macchina col padre di Kevin.

Eravamo nel sedile dietro, vicini. Luca parlava animatamente proteso verso Kevin, seduto davanti. Filippo fissava la strada con tutto l'impegno possibile per ignorarmi. Io gli ho dato un colpetto al ginocchio col mio. Voleva essere una presenza, una coccola, un sono qui vicino a te. Lui si è voltato appena e io ho fatto lo stesso. Ci siamo ritrovati con i visi vicini e il suo primo sguardo, quello che non ha potuto camuffare, che non ha fatto in tempo a gestire, non ha saputo mentirmi. Non erano scintille di rabbia che brillavano dentro agli occhi, e il suo castano non si è dorato a caso, mentre mi guardava.

Gli ho afferrato la mano, gliel'ho stretta. Lui ha cercato di sottrarla, ma non gliel'ho permesso.

«Vi piace la nevicata di luce?» esclama Betta, in un costume vittoriano, abbracciandoci uno a uno, riferendosi ai proiettori che riproducono cristalli di neve iridescenti sulle pareti disponibili. «Che bello che ci siete tutti! Anche tu, musone» dice a Filippo. «Grazie che siete venuti! Le ragazze sono già arrivate, stanno provando gli abiti» dice, su di giri in modo pazzesco.

«Che abiti?» chiedo preoccupato, mentre mi trascina a braccetto, nella sua acconciatura elegantissima.

«Ho una cinquantina di abiti da donna in armonia col tema della festa. E per gli uomini, le marsine.»

«Betta, no, ti prego. Sono riuscito a evitare lo smoking e tu mi infili in un cazzo di frac?»

«Ve lo riporto tra due minuti!» dice Betta conducendomi lontano dallo schiamazzo degli ospiti, verso la villa. «Devo darti una cosa da parte di Edo.»

Entriamo nell'atrio, le luci sono accese e basse, ma quando varchiamo la soglia diventano più intense. La casa ha uno stile molto moderno e lussuoso, mi fa sentire a disagio, ma non ho tempo di osservarmi troppo attorno, perché lei mi prende per mano e mi porta in un vestibolo grande quanto casa mia.

L'abito che indossa rende le sue manovre difficoltose. Apre l'anta di un armadio, ne estrae una scatola nera, cubica, che sta a malapena nella sua mano. Sopra il coperchio, scritto in argento col pennarello, c'è la dicitura Per Jannik.

«Lo ha scritto lui?»

«In che senso?»

«E' la sua calligrafia?»

«Ah, quello dici, sì.»

E' bella. Coreografica. Non ci sono nastri a chiusura, basterà sollevare il coperchio. Pesa un po'. Ma che cazzo ci sarà, dentro?

«E' una bomboniera?» rido.

Betta si appoggia al tavolo rotondo in cui troneggia un enorme mappamondo di legno.

«Non ne ho idea, non l'ho aperto. Però devo dire che sono un po' curiosa, anche perché non mi ha mai fatto un regalo in vita sua. Non è un tipo da regali, diciamo. Ma tanto, con te è diverso.» Solleva le spalle.

«In che senso?»

«Eddai, Cri, è mio fratello, lo so che ultimamente ti cerca sempre» sorride. «E comunque io ho smesso di capirlo. Ma l'accordo era questo: io ti consegnavo il regalo prima di mezzanotte e lui mi faceva usare la sua dependance» scoppia a ridere. «Anche se non andava più a Berlino.»

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