La mezzanotte (parte due)

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Zio Giorgio, in smoking, mi requisisce davanti alla villa e mi lascia all'inizio del sottopasso. Scende dall'auto, prende una busta dal bagagliaio e me la consegna.

«Sono due giorni che ci vado in giro. Tua zia dice che ha fatto tutto.»

«Grazie mille.»

Prima di lasciare andare i manici della busta, mi scruta cercando qualche falla nel mio umore.

«Non mi fa sentire molto tranquillo lasciarti qui, francamente.»

«Ma sta arrivando Filippo!» mento, con un sorriso grande quanto la speranza.

«Allora lascia accesa la posizione sul cellulare. Renditi rintracciabile, per favore.»

Quando finalmente riesco a salutarlo, dopo altre mille rassicurazioni - non ultimo avergli dovuto mostrare la posizione accesa e il livello della batteria - mi inoltro nel sottopasso, immergendomi nell'oscuro tanfo di fogna e di acqua marcia, sbuco ossigenandomi dall'altra parte. Cazzo che schifo, ogni volta.

Il mare è un po' mosso, stasera. Imbocco la passerella di cemento e cammino fino al capanno azzurro, nel punto riparato. Non ci sono più le barche, che palle. Mi piacevano. Lo prendo come un cattivo segno? No, perché? Smettila, cazzo, di tirartela.

Appoggio la camicia bagnata sul massetto di cemento, vicino alla porta. Ci appoggio la busta e la scatola di Edo e mi siedo accanto.

Direi che ho apparecchiato la serata. Manca solo la portata principale. Che potrebbe non arrivare, lo sai, vero? Per mille motivi. Raccolgo le ginocchia e ci nascondo la faccia. Per esempio, perché Leo ha saputo essere convincente e avrà pianto più forte. O perché il suo pensiero nero l'ha sedotto più di quanto possa aver fatto io. O perché più semplicemente non troverà un cazzo di passaggio a quest'ora o un taxi per arrivare qui.

E sono già le 11 e mezzo.

Sento le risate di un gruppo di amici provenire da uno dei balconi dall'altra parte della ferrovia.

Osservo i regali accanto a me. Prendo la scatola di Edo. Pesa. La muovo appena, con delicatezza, perché non so cosa contenga. Ma che mi avrà regalato? Che deve essere spiegato, tra l'altro. Ma non lo voglio sapere, adesso. La riappoggio chiusa. Afferro l'altra busta, quella che mi ha preparato zia, la stringo a me. Cazzo, vieni Fili, ti prego.

Controllo il cellulare. Non ha nemmeno letto il messaggio, ancora. Ma lo avrà visualizzato, spero. O lo avrà visto che non ci sono più. Mi avrà cercato. O no? Ma che ne so.

Mi alzo perché non riesco più a stare seduto, adesso. E' pure freddo. Mi muovo verso la riva, calciando la sabbia, nel punto scuro in cui non arriva il chiarore del lampione. Cerco la luna. E se non arrivasse? Cazzo, se davvero non arrivasse più? Se avesse letto il messaggio e decidesse di lasciarmi qui? Magari la sua testa gli suggerisce una scelta diversa, una scelta che non lo porterà qui da me. No, non posso essermi sbagliato tanto.

Sollevo il bavero del giaccone, controllo di nuovo il cellulare e infilo le mani gelate nelle tasche.

Sulla linea dell'orizzonte c'è un traghetto fermo, illuminato con collane di luci a festa. Ormai, si stanno preparando tutti con bottiglie da stappare, con guance da baciare, con sorrisi da fine e da inizio, e io sono qui come un coglione.

Ma forse, alla fine, è giusto così. Solo con me stesso, in piedi su questa invisibile linea del tempo, tra il vecchio e il nuovo anno, con chi sono e con chi sarò.
No, non è vero, non è giusto. Fili, ti prego, ti prego, vieni da me, ti prego. Ma mancano due minuti a mezzanotte.

Ormai è tardi.

Sento pungermi le lacrime agli occhi seccati dal freddo.

Il gruppo nel balcone dietro la ferrovia inizia il corale conto alla rovescia. Quattro, tre, due, uno... sento schioccare i tappi, i baci, gli auguri, i fuochi, i bordelli in ogni dove.

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