𝐂𝐚𝐩𝐢𝐭𝐨𝐥𝐨 𝟖

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La "gara" alla fine la vinsi io, ovviamente.
Entrammo nello studio, non smettevo di deridere Arthur per la sconfitta e più insistevo, più il suo orgoglio di 'maschio alfa' veniva fuori e imprimeva sul suo volto un'espressione totalmente infastidita.

"Dai, cosa vuoi che sia!! Hai soltanto perso una contro una neo-maggiorenne!"

"Taci, nanerottola. C'è già la tua cliente che ti aspetta." ribadì stizzito.

"Ok ok, vado, ma non tirarla per le lunghe!"

Ci lanciammo un'occhiata, cercai di ritornare ad un minimo di serietà e mi focalizzai sul lavoro che mi aspettava.
Ero davvero fortunata ad esser stata assunta alla mia età in quello studio, il mio lavoro mi piaceva davvero tanto e sì, devo ammetterlo, sono stata abbastanza precoce e questo lo devo oltre che a me, anche a Jason che mi ha prima insegnato  e, poi, fatta entrare qui.
Anche mia nonna ne era felice ed era piuttosto strano per una donna della sua generazione, ma lei mi amava davvero e sapeva compiacersi dei miei successi, senza pregiudizi, le bastava sapere che facessi cose giuste, che mi comportassi bene e non mi infilassi in cattivi giri.

Flashback

Ero in sala, seduta sul divano mentre giocavo con le mie macchinine, quando mamma e papà iniziarono a litigare, mio padre si stava lamentando con lei del fatto che non si prendeva abbastanza cura di me, che mi trascurava, ed effettivamente aveva ragione, ma nemmeno lui lo faceva; alle volte, nemmeno si fermava a parlare con me.
Loro erano in cucina, mia madre stava scaldando l'acqua nel bollitore del té; mi alzai avvicinandomi piano al muro della sala, che si trovava esattamente di fronte alla cucina ed osservai la scena: mio padre continuava ad urlare contro mia madre, mentre lei rimaneva impassibile, con lo sguardo perso chissà in quali pensieri o ricordi.
Sapevo che da qualche mese mia madre aveva cominciato a prendere delle medicine, ma non sapevo a cosa le servissero, ero ancora troppo piccola per capire; ma quando le prendeva sembrava quasi un fantasma, fisicamente c'era ma mentalmente no, era spaventoso per una bambina così piccola assistere alla trasformazione della propria madre.

Osservavo i suoi movimenti; ero piccola sì, ma ormai iniziavo a conoscerla e sapevo cosa stava per fare.
Lei posò le mani sul manico della teiera dopo aver spento il fornello, la alzò tremando visibilmente e in un attimo, quell'acqua si riversò su mio padre.
Mi precipitai in cucina e mi buttai davanti a lui per proteggerlo, saltai più in alto possibile, poi -data la mia bassa statura- l'acqua bollente finì per riversarsi tutta sul mio addome.
All'epoca non avevo la minima idea che lui la picchiasse.

Gridai per il dolore con quanto fiato avevo in corpo, così mio padre, sgranando gli occhi si precipitò da me; non lo avevo mai visto così preoccupato prima d'ora. Davvero ci voleva una cosa del genere, per far sì che lui mi notasse?
Piansi fino a perdere il respiro, il dolore era dilaniante e lo sguardo impassibile di mia madre, devastante.

"Che cazzo hai fatto Lilith?!" le urlò mentre mi prendeva in braccio, affrettandosi a prendere un panno bagnato per appoggiarlo sull'ustione, così da darmi almeno un po' di sollievo.

"Sei completamente pazza! Fatti curare!" continuò rivolto a mia madre, che sentendo quelle parole accennò un sorrisetto amareggiato e aspro, mentre stringeva i pugni; era innervosita.
Mio padre chiamò immediatamente la nonna, che si precipitò a casa nostra: ma quando arrivò, la scena era agghiacciante.

Si sentivano le mie urla ed il mio pianto racchiusi fra quelle mura, ero accasciata sul corpo di mio padre, era ancora vivo, lo vedevo respirare a fatica, ma era in un lago di sangue... il suo sangue.
Mia madre non deve aver digerito le parole che le aveva rivolto, così prima ancora che la nonna arrivasse, prese un coltello dal cassetto della cucina e lo usò per colpire mio padre dietro la schiena con una violenza mai vista.
"Hai deciso di voler salvare lui... questo è il prezzo da pagare, Norah Cliff." mi sussurrò avvicinandosi a me per poi procurarmi un taglio sotto il costato, con lo stesso coltello, macchiato ancora dal sangue di mio padre, quasi a volermi lasciare un marchio indelebile della sua brutalità.
L'ambulanza arrivò e lo caricarono d'urgenza; mentre mia madre veniva portata via dagli agenti di polizia, gli stessi che chiamarono gli assistenti sociali, i quali assisterono me e mia nonna, per poi trasportarci in ospedale per controllare ala mia ferita.

***

A partire da quel giorno, mi portarono da svariati psicologi, ma non avevo mai trovato qualcuno che sapesse mettermi a mio agio davvero e mi facesse venir voglia di aprirmi.
Per carità, non critico o sottovaluto il loro lavoro, solo che mi è sempre sembrata una perdita di tempo, voglio dire a che scopo andarci, se poi continuavo a stare male? C'era troppa oscurità dentro di me, ed avevo assistito a cose che nessuno avrebbe potuto immaginare.

Ad ogni modo, erano ormai tre anni che andavo nello studio della dottoressa Elizabeth Lauren Brown o più semplicemente, dottoressa Brown.
Stranamente con lei mi trovavo bene, ma non ero ancora riuscita a sbloccarmi su certi argomenti, perché parlarne faceva ancora troppo male.

"Come stai oggi, Norah?" mi chiese con tono gentile, guardandomi mentre mi sedevo nella
sedia di fronte a lei, dall'altro lato della scrivania.
L'arredamento di quello studio aveva un certo potere rilassante, tutti i colori erano giusti, le tonalità si rincorrevano tra una rifinitura e l'altra e le cornici appese alle pareti, inquadravano paesaggi surreali, quasi come se volessero trasportati in una dimensione dove tutto è da scoprire.

"Bene, grazie." mi limitai a rispondere, sapevo che argomento avremmo affrontato oggi e la cosa mi metteva soggezione.

Lei mi scrutò, ma rimase neutrale, annuendo leggermente.

"Le scorse volte mi hai parlato di alcuni flashback, giusto?" chiese conferma ed io annuii.

"Si, allora..."
Ecco, lo sapevo, me l'aspettavo quella domanda, anzi, diciamo che vivevo ogni seduta aspettando di vedere cosa sarebbe successo quando me l'avrebbe posta.
Ed eccomi qui, sono in quel preciso istante che cercavo di visualizzare.
Le mie mani pian piano iniziano a sudare, la mia testa si fa più pesante, sono i troppi ricordi che iniziano ad accavallarsi... il cuore prende un ritmo irregolare mentre la frequenza dei battiti aumenta.
"Devi controllarti Norah, sei di fronte alla tua psicologa. Va tutto bene. Sei qui per stare meglio."
Feci qualche respiro, poi il mio tentativo di non farmi prendere irrimediabilmente dall'ansia, fu troncato da una seconda domanda, ancora più diretta e insidiosa della prima.

"Norah, com'è stato per te quell'episodio?" una risata quasi mi uscì spontanea: la dottoressa Brown era brava nel suo lavoro, ma certe volte se ne usciva con delle domande totalmente inutili.

"Scusi, non per essere scortese, ma che domanda del cazzo è?" la guardai e lei assunse un'espressione neutrale, ma dagli occhi traspariva il senso di essersi resa conto di quella stupida domanda appena fatta da lei stessa.

"Okay, hai ragione, allora vuoi parlarmi del rapporto tra te e la depressione? Come lo stai affrontando?" colpita e affondata.

"Non so di cosa lei stia parlando, mi scusi." risposi distaccata, non riuscivo ad accettare la diagnosi, nonostante sia quasi passato un mese, da quando me lo ha detto.

"Lo so che non è facile, e ti conosco da abbastanza tempo per sapere anche quali sono i tuoi pensieri a riguardo."

"Allora perché devo star qui a rispondere a domande delle quali lei conosce già le risposte?"

"Norah... non sarà sempre così, starai meglio e questo periodo se ne andrà, tornerà il sole anche per te, devi solo avere buona volon..." non riuscì a finire, che la mia risata la fermò, mentre io la guardavo divertita.

"Sole? Per me non c'è mai stato e mai ci sarà, il sole." risposi poi acida, alzandomi "La seduta si conclude qui, arrivederci." affermai senza che la dottoressa potesse fare nulla per farmi restare, lo sapeva com'ero fatta e non era la prima volta che abbandonavo la seduta così dal nulla.

"Prendi le tue medicine Norah, ti prego." fu l'ultima cosa che mi disse, prima che io uscissi definitivamente dallo studio e salissi sulla mia moto andandomene.

Lo sapevo, sapevo di soffrire di depressione ma non volevo accettarlo, non volevo prendere quelle stupide medicine, avevo timore di poter diventare insensibile come mia madre... però forse, se non le prendessi potrei diventare come lei, non voglio essere come lei, io non sono come lei... vero?

𝐴 𝑆𝑖𝑙𝑒𝑛𝑡 𝐿𝑜𝑣𝑒Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora