capitolo 3 Violet

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Violet

Avanzo e l’acqua bagna il mio vestito bianco che inizia a gonfiarsi, continuo  ad avanzare rischiando di inciampare ad ogni passo data la sabbia che sprofonda sotto il mio peso, avanzo fino a quando sono immersa del tutto.
L’acqua è veramente gelida e percepisco sulla pelle i brividi, i muscoli si irrigidiscono senza il mio volere, ma mi adatto in pochissimo tempo.

Mi lascio andare.

Il mio corpo inizia a fluttuare sulla superficie che mi tiene a galla, spalanco le braccia e mi sembra di volare.

Mi sento così leggera da dimenticare il grosso peso che porto con me ogni giorno.
È tutto ovattato, i rumori del mondo sono rinchiusi in una scatola, i problemi accartocciati come fogli bianchi imbrattati dalle mie paure, dalle mie colpe.
Ho promesso a Patty che non sarei più stata la ragazzina piena di timori, ora che finalmente sono fuori pericolo ho intenzione di essere una nuova Violet.

Osservo il cielo azzurro, il sole accecante che illumina e riscalda ogni cosa, le nuvole che sembrano panna montata, cerco di imprimere tutto questo nella mia memoria, ho intenzione di fissare questo ricordo su di una tela non appena arriverò a casa.
Prendo un enorme respiro  e mi immergo, attraverso l’acqua vedo il cielo un po’ sfocato, ma ho difficoltà a vedere i colori, le sfumature.
Era così la mia vita fino a l’anno scorso, sfocata, adesso può essere diversa, non sarà più una fotografia sbiadita, quasi in bianco e nero, relegata sul fondo di un cassetto che di tanto in tanto guardi.
Ogni giorno adesso sarà a colori, sarà nitido, pieno di emozioni, combatterò per far sì che sia così.

Ha ragione la mia psicoterapeuta, i sensi di colpa faranno sempre parte di me, non riuscirò a liberarmene, ma non posso permettere che siano catene che mi tengono prigioniera.

All’improvviso, succede qualcosa, vengo strattonata con forza e riportata a galla, riempio di nuovo  i miei polmoni di aria e mi guardo intorno.
La paura che possa essere vittima dell’attacco di uno squalo mi immobilizza, ma non sento dolore da nessuna parte, cerco di mettere a fuoco l’ambiente intorno a me e mi rendo conto che è una persona che mi sta trascinando a riva.

È quel ragazzo.

«Aiuto, aiuto.»
Urlo istintivamente cercando di sfuggire alla sua presa, ma non ci riesco.
Oddio, magari è un pazzo, avrei dovuto capirlo quando è corso in spiaggia e si è messo ad urlare in quel modo.
Evidentemente non funziona l'allarme di pericolo che in genere si accende nella testa delle persone per metterle in guardia.

Lui farfuglia qualcosa che non riesco a comprendere, il panico mi stritola lo stomaco, i muscoli si irrigidiscono e il cuore pulsa forte.
«Lasciami, aiuto.»
Cerco di divincolarmi nuovamente dalla sua stretta che però è troppo forte sul mio braccio, mi guardo intorno ma sembra deserto questo posto, con difficoltà nuota verso la riva portando i nostri corpi sempre più vicini.
Finalmente arriviamo sul bagnasciuga e molla la presa dopo il mio ennesimo  strattone per cercare di liberarmi.
Poggio le mani sulla sabbia bagnata e rimettermi in piedi e più faticoso di quel che credevo, il vestito fradicio non aiuta i miei piedi che restano impigliati nel tessuto facendomi cadere.
Quando finalmente riesco a rimettermi in piedi ed uscire definitivamente dall' acqua, faccio subito qualche passo indietro, per mettere distanza fra me ed il misterioso ragazzo, ma da stupida quale sono non scappo, bensì resto a guardare quello sconosciuto.

Il suo respiro è affannoso e si sorregge con difficoltà, ancora con le gambe in acqua, a petto nudo e i capelli nerissimi grondandi, ma non appena torna nella posizione eretta, incontro i suoi occhi.
Mi sembra quasi di guardare in due frammenti di ghiaccio,  talmente chiari da sembrare quasi trasparenti,  così particolari e penetranti da spezzare il mio respiro.

«Stai bene?»
Lo sconosciuto si protende verso di me ed io, in risposta, faccio due passi indietro per mantenere le distanze.
«Che diavolo volevi fare?»
Chiede in modo accusatorio  con occhi duri e la mascella rigida, io,  sinceramente non capisco questo suo atteggiamento.
«Senti, devi stare alla larga da me o chiamerò la polizia.»
Il suo sopracciglio sinistro si alza, è evidentemente confuso e non so se chiamare davvero il 911, magari ha bisogno di medicine per mantenere la calma.
«Ma che diavolo dici? Ti ho appena salvato la vita.  Perché hai tentato di suicidarti?»
Spalanco gli occhi per la sua domanda e tutto questo sembra davvero surreale.
«Io non cercavo di uccidermi, ma di che stai parlando?»
Quasi sotto shock cerco di capire che stia succedendo, lo osservo attentamente e non vi è traccia di secondi fini o menzogna sul suo volto che sembra scolpito nel marmo.
In realtà, non ha l'aria di essere un vagabondo o il paziente di una comunità di recupero.

«Non tornavi più a galla, sembrava che l’acqua ti avesse inghiottita nel nulla.»
Pronuncia quelle parole seriamente preoccupato, indica il punto dove ero e resto sorpresa nel percepire ansia nella sua voce, perché noi non ci siamo neanche mai visti prima d’ora e lui non può preoccuparsi e rischiare la propria vita gettandosi nell’oceano per me, eppure lo ha fatto.

«Ti accompagno in ospedale, come ti senti?»
Nemmeno i miei genitori sono mai stati così preoccupati per me nonostante stessi davvero morendo.
«Non c’è bisogno, sto bene, non avevo intenzione di farmi del male, puoi stare tranquillo, volevo solo attutire tutti i miei pensieri per un attimo.»

I suoi occhi intrappolano i miei in cerca della verità, la fronte si aggrotta formando delle pieghe e mi scruta intensamente, il tempo sembra fermarsi ed io mi sento esposta come non mai.
Ho come la sensazione che questo ragazzo possa leggere attraverso la corazza che cerco di ereggere da anni per sembrare meno fragile agli occhi di tutti, persino quelli di Patty.
«Ok, accidenti non posso credere a quello che è appena successo.»
Passa nervosamente una mano fra i capelli nerissimi e bagnati, leggermente folti, alcune piccole ciocche ricadono sulla fronte finendo fra le sue ciglia costringendolo a ripetere il movimento. Altre gocce d’acqua finiscono per percorrere il mento, finendo per seguire la curva del collo, non arrestano la loro marcia e accarezzano il pettorale accennato e finiscono per restare intrappolati fra le piccole pieghe sulla pancia ricoperta da addominali pronunciati.
«Ora io vado, tu sai come tornare a casa?»
Come una sciocca resto ad osservare ogni azione da lui compiuta registrandola nella mia memoria, afferra la maglietta nera da terra, scrolla la sabbia che conteneva e tampona la sua pelle bianchissima.
I jeans neri attillati nascondono dove va a finire la perfetta V che disegnano i muscoli del ventre.

«Ti piace quello che stai guardando, fiorellino?»
Sbatto più volte le palpebre imbarazzata per le sue parole e di essere stata sorpresa a fissarlo, mi chiedo del perché di questo soprannome, sono sempre stata etichettata come "la malata" o "la strana" persino "la suora" perché non partecipavo mai a nessuna festa.
Cerco di fingermi disinvolta e distolgo lo sguardo, solo in quel momento mi rendo conto che il mio vestito bianco è appiccicato addosso come una seconda pelle, peccato però che sia completamente trasparente, mettendo in risalto il mio intimo nero pieno di rose rosse.
«Potrei scattare una foto e mandartela, se ti va?»
La smorfia che non mi preoccupo di nascondere dopo la sua frase è abbastanza eloquente e mi fa dimenticare del grande imbarazzo, lasciando posto all'irritazione.

Afferro immediatamente la borsa poco distante, pronta ad andare via.
«Prego per averti salvata.»
Mi volto nella sua direzione continuando però a camminare  all’indietro.
«Non avevo bisogno di essere salvata.»
Corro poi in direzione del marciapiede e arrivata lì afferro i miei sandali dalla borsa e li indosso, l’istinto di voltarmi verso di lui è irrefrenabile e cedo, non so per quale motivo.
Mi sorprende la delusione che arriva nel scoprire che di lui non vi è già nessuna traccia.

Mi sorprende la delusione che arriva nel scoprire che di lui non vi è già nessuna traccia

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