Un inizio per D

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Duncan

Scura come la notte
e candida come la luna.

«Ti ho lasciato la colazione sul tavolo, sono in ritardo, oggi mi aspettano prima a lavoro. A pranzo ci sei?»
La voce di mamma che mi chiama dal piano di sotto mi fa sobbalzare dal mio sonno profondo.
Probabilmente non ho sentito la sveglia, prendo il cellulare e guardo l'orario: sono le 7:20. Probabilmente mamma non sarà l'unica ad arrivare in ritardo stamattina, ma poco importa.
Sollevo il corpo con le mani e poggio la schiena contro lo schienale del letto.
Finalmente è venerdì.
Un filo di luce entra tra i buchi della tapparella, deduco che, per lo meno, oggi sarà una bella giornata. Mi sfrego gli occhi con le mani, ancora infastidito dal soprassalto che mi ha fatto svegliare.
«Erika?»
«No mamma, a pranzo vado a trovare Cassie, magari le porto quel lecca lecca alla fragola che voleva l'altro giorno. Non credo che lei mangi bene lì, ed almeno avrà qualcosa con cui rifarsi la bocca» esito e mi alzo dal letto «e comunque mi chiamo Duncan, mamma. Duncan» vorrei urlarglielo, ma solo dopo che pronuncio la frase, mi rendo conto che sia uscita a voce così esile che a stento posso affermare di averla realmente detta e non solo pensata.
Ma forse è meglio così, non ho voglia di discutere con lei, non di nuovo, quindi mi limito a tirare le coperte del letto ed iniziare a preparami.

Sì, oggi è una bella giornata. Siamo a metà settembre ma continua ad essere caldo come i primi giorni di agosto. Ciò rende quasi piacevole fare i dieci minuti a piedi che mi separano dalla scuola.

Ed, alla fine, sono pure uscito in orario, forse anche troppo in orario per l'inferno che mi aspetta.

Da quando è iniziato l'anno scolastico "Erika Carter, quella tipa che si fa chiamare con un nome da maschio che inizia per D o qualcosa del genere" è sempre al centro dei discorsi di praticamente tutto l'istituto nei corridoi tra un'ora di matematica ed una di fisica, sulla bocca di ragazzi e professori indistintamente. Credo che parlare di "quella che si fa chiamare nome che comincia per D" stia diventando addirittura più gettonato dei classici «l'esame è ormai alle porte», «se non rimanete indietro, la maturità sarà una passeggiata», «se studiate poco per volta arriverete già preparati» e simili che la prof Moore ci dice circa sei volte a lezione come un disco rotto.
Cammino verso il cortile della scuola e mi siedo sulla mia solita panchina, mentre mi godo il piccolo tepore dei raggi del sole ancora freschi della prima mattina. Mi accendo una sigaretta ed aspetto che la campanella suoni, vittima del mio destino, mentre mi maledico per aver perso l'anno scolastico in terza per una stupida sospensione. A quest'ora non sarei più in questo terribile inferno e mi mangio le mani al solo pensiero.

Le cinque ore di scuola passano in fretta e, togliendo qualche sguardo stranito ed alcune spallate tra studenti che si volevano dire «oh, guarda chi arriva», risulto abbastanza invisibile, almeno rispetto al solito. Forse è la prima volta che succede dall'inizio dell'anno scolastico. Voglio pensare che sia il primo di tanti altri giorni di invisibilità di Duncan Carter, e mi piace illudermi che Cassie, quando mi disse «tranquillo Dà, guarda che tra qualche mese manco si ricorderanno chi sei», avesse ragione e che la sua profezia stia iniziando ad avverarsi.
È così piccola ma così intelligente; forse io a tredici anni manco sapevo contare, mentre lei mi sorprende sempre con i suoi discorsoni d'incoraggiamento come se fosse lei la sorella maggiore. Il senso di colpa mi assale ed un nodo mi si forma subito in gola strizzandomela; non posso non pensare che, se ora si trova lì, possa essere anche un po' colpa mia. Magari avrei potuto essere diverso, starle più vicino, capirla di più.
E poi se lo sarebbe meritato da me: quando, ad inizio estate, mi sono aperto con la mia famiglia ed ho cercato di spiegare chi sono, Cassie è stata la prima a saperlo, ed anche stata l'unica a capirmi. Quel pomeriggio, quando gliene ho parlato, se n'è uscita con un «mi hai fatto perdere l'inizio della puntata di "How I Met Your Mother" per dirmi 'sta stronzata? E poi io lo sapevo già», io mi sono limitato ad un «Cassie! Non si dicono le parolacce!», lei ha riso ed è tornata in camera sua. Può sembrare una cosa stupida, ma la sua reazione naturale e sponatea, quel giorno, mi tranquillizzò moltissimo. Inutile dire che non mi preparò affatto alla reazione dei miei genitori. Ricordare quel momento ancora mi fa salire un senso di irrequietezza sconcertante.
Penso che ci sia un sole troppo bello per rovinarlo rimuginando su eventi passati, quindi scaccio via con difficoltà questo ricordo e mi accendo una sigaretta.
Sorpasso il cortile della scuola e mi incammino verso la fermata del bus per andare a trovare mia sorella Cassie.

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