Dominatore del discorso

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Commento dell'autrice: dopo una brusca discussione familiare, solo la luna può riportare sole alla sua grigia giornata.
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Dumcan

Vestita di malinconia,
il dolore le calzava alla perfezione.

Ieri notte siamo rincasati alle 4:30 di mattina e, con la più che sufficiente dose di stanchezza, mi sono addormentato appena raggiunto il letto, dopo una serata piacevole accompagnata dalla mediocrità tipica di una discoteca un po' modesta.
Con la giusta fortuna sono riuscito sentire la sveglia ed alzarmi alle 10, andare al bagno ed, in poco tempo, essere già lavato e vestito.
Cassie mi ha chiesto di andare con lei ad una festa di cui non ho capito molto, che verrà tenuta oggi dal centro in cui è ricoverata. Era così emozionata all'idea di vederci fuori dalle solite quattro mura che circondano ogni nostro incontro da ormai un mese, che il suo sorriso, raggiante come sempre, mi apparve ancora più luminoso quando le dissi che era ovvio che sarei venuto, mentre un peso al solo pensiero di tutto ciò che ha dovuto affrontare la mia sorellina mi navigava tumultuoso nella gola.

La festa inizia alle 15 in un auditorio situato in un parco che dista una decina di minuti dal centro psichiatrico ed io, come gli altri accompagnatori, aspetterò Cassie già lì mentre lei verrà con il pulmino.
Non ho ancora incontrato mamma da quando l'ho vista in quel bar ieri pomeriggio e non so che effetto mi farà vederla a breve per la colazione.
«Buongiorno Erika» la voce di mia madre, con una fastidiosa frase banale e scontata, che mi ricorda di nuovo quanto io sia sbagliato e quanto la mia immagine non mi appartenga, mi accoglie appena varcata la soglia della cucina. La guardo con astio e non le rispondo.
«Ti sei già preparata? Devi andare da Cassie?»
«Portami più rispetto» rispondo freddo e deciso, ignorando tutte le domande che mi verrebbero da farle su ciò che ho visto in questi giorni.
Sospira «è vero, ora abbiamo anche questa» dice con tono di rammarico e rassegnazione.
Il mio livello di sopportazione è al limite.
«Ti ho detto di portarmi più rispetto, per favore» scandisco ogni parola alzando la voce.
«Smettila di essere così egoista. Per me non è facile accettare che mia figlia sia...» si interrompe.
«Sia cosa?» la incalzo a continuare.
Resta in silenzio. Alzo la voce ulteriormente «sia cosa?»

«Sia una che dice di essere quella roba là» dice velocemente, quasi vergognata, e con una grossa dose di qualcosa molto simile a disgusto.

«Io non sono "tua figlia", non lo sono mai stato e non lo sarò mai. Se non vorrai accettarlo farò come ho fatto con papà» sbotto con un magone appoggiato sulla gola.

«Non sei tu ad avere deciso di non vederlo più. È lui che non ti ha voluto abbastanza bene da accettare le tue stranezze e ti ha abbandonata come ha fatto con me. È stato lui. Non tu.»
La sua cattiveria mi spiazza e, come un pugile che incassa i suoi ultimi colpi prima del K.O, trattengo il respiro senza avere la forza per contrattaccare.

Esco dalla cucina e sbatto la porta dietro di me con violenza. Salgo in camera a prendere telefono, chiavi ed il resto delle cose che mi servono, per poi uscire come una furia dalla soglia di casa.
Strangolo il dolore e butto fuori il veleno nelle mie vene scaricandolo su ciò che ho intorno, credendo di poter smettere di soffrire aggredendo gli oggetti che mi circondano, nell'inutile tentativo di riprendermi dal mio K.O: il muretto di casa, il cestino dall'altra parte della strada, i muri degli edifici intorno a me... nulla ha tregua nel mio passaggio.
E, mentre tento di risolvere la mia gara persa e far fronte alla mia sconfitta in modo incontrollato, qualche lacrima salata mi scorre lungo le guance con impeto e violenza, obbligando la gola, oramai in fiamme, a rompersi in gemiti piccoli piccoli, soffocati, che manco credevo di saper produrre.

Un attimo feliceDove le storie prendono vita. Scoprilo ora