Capitolo 13

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Quella settimana non poteva andare peggio di così. Mio fratello non aveva più il sistema immunitario. Mia madre non aveva più il lavoro. Mio padre lavorava più o meno novanta ore alla settimana e pareva sull'orlo di una crisi di nervi. Il mio ragazzo, o meglio ex ragazzo, era venuto a casa mia per darmi ripetizioni e io l'avevo cacciato dalla mia proprietà. Per di più ero destinata ad essere rimandata in matematica.

A scuola era cominciato a girar voce che Caterina Dufour era quella che aveva lasciato Christian di Gresy sul marciapiede e sono stato eletta all'unanimità "Fica dell'Anno". Diego in particolare non stava più nella pelle per tutta quella storia. Di sicuro tutti le ragazze che conoscevo pensavano che aver rispedito Christian a casa facesse di me l'idiota numero uno dell'East Village, ma si vedeva che in fondo nutrivano una certa ammirazione nei miei confronti. Era come se avessi resistito al canto ammaliatore di un'incantatrice fatale: tutte erano in balia del suo incantesimo e non potevano resistergli, per questo pensavano che possedessi un qualche potere oscuro.


Non importava che si sbagliassero, che ogni volta che Christian entrava in classe e mi lanciava un'occhiataccia, mi sentissi combattuta tra due istinti contrari: correrle incontro, inginocchiarmi ai suoi piedi e chiederlo in sposo oppure correre a piangere nel bagno delle ragazze per un'ora. Gli altri vedevano soltanto uno che aveva mandato il capitano della squadra di calcio a farsi un giro. Assurdo.

Quella settimana Ludovica, che era l'unica amica che mi era rimasta, mi aveva aspettato fuori dalla scuola un sacco di volte, la mamma e Nico erano andati e tornati da Padova, io ho nuotato, avevo sbranato tutto quello che mi davano da mangiare e il sole sorgeva a est e tramontava a ovest. Stavo per lasciarmi andare, ma avevo ancora un briciolo di energia a cui attaccarmi per superare l'esame.

Avevo tutti sette, otto e nove in inglese, chimica, latino e spagnolo, e una bella insufficienza in matematica. La De Zan mi ha chiamato nel suo ufficio un venerdì per comunicarmi la notizia.
Avrei dovuto capire subito che non mi aveva fatto chiamare per consegnarmi un riconoscimento alla carriera scolastica.
«Dove ho sbagliato? Ho seguito tutte, quasi tutte le lezioni, ho preso ripetizioni, ho studiato come un monaco tibetano...»
«Caterina, mi dispiace proprio tanto. So che ce l'hai messa tutta.»
«Già, hanno detto la stessa cosa anche al dodo, al piccione migratore, a Vanilla Ice...»
«Come pensi che la prenderanno i tuoi? Eri piuttosto preoccupato per quello che avrebbero detto vedendoti fare tutti quei compiti».
«Ehm... non saprei. Non ho mai preso meno di sette prima d'ora, ma c'è da dire che in questo periodo sono tutti presi dalla situazione di mio fratello. Magari non ci faranno troppo caso».
«Mi dispiace contraddirti, ma temo che a questo faranno caso».
«Lo so. Come lo scopriranno? I risultati compariranno sul registro  oppure chiamerete direttamente a casa... insomma farò in tempo a dirglielo io?»
«I risultati saranno già nella bacheca. Vuoi che li chiami prima che li vedano?»
«Sì, per favore. Può chiamare mia madre al cellulare. È all'ospedale con Nicolò oggi, ma ce l'ha sempre con sé. La prego le dica che almeno ci ho provato. Può?»
Lei ha risposto "affermativo" e poi mi ha chiesto se preferivo o meno rimanere nella stanza durante la chiamata. Sarei morta piuttosto che starmene lì a seguire minuto per minuto le reazioni della De Zan mentre mia madre le diceva che l'avevo delusa, così sono tornata in classe. Mi sono ritirata nel guscio e ho cercato di sopravvivere al resto della giornata; ho vissuto il tragitto di ritorno con l'autobus come l'ultima ora d'aria di un condannato a morte.
Come c'era da aspettarsi, quando sono arrivata a casa, non c'era nessuno. In segreteria ho trovato due messaggi: uno di papà che diceva che sarebbe rientrato alle dieci perciò meglio se cenavo da solo (che novità!) e uno della mamma che mi avvertiva che lei e Nico sarebbero rimasti in ospedale ancora una notte, ma che dovevo chiamarla al cellulare appena possibile.
Ecco che mi si presentava un interessante dilemma: meglio chiamare e affrontare il problema, o infischiarsene per un attimo e godersi quelle poche ore di solitudine snervante piuttosto che triste? Ci ho riflettuto per circa un nano secondo poi sono andata in piscina. Mentre nuotavo mi sono resa conto che forse la mamma si sarebbe preoccupata non sentendomi, ma non ero proprio in vena di mettermi nei panni di qualcun altro, in quel momento.

ALL OF MEDove le storie prendono vita. Scoprilo ora