capitolo cinque.

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Non riuscivo a trovare la posizione comoda e così mi giravo e mi rigiravo tra le coperte da ormai due ore. Una luce arancione, gialla e bianca che proveniva dalla finestra a grate e finiva sul mio viso, mi convinse ad alzarmi dal letto.
Tastai il comodino accanto alla mia testa e trovai gli occhiali: li indossai e mi alzai.
Camminai fino alla finestra, aprii leggermente l'anta e l'aria fredda di Londra mi svegliò all'istante, anche se non avevo chiuso occhio per l'intera notte.
Mi recai in bagno e il caldo mi riavvolse; mi lavai il viso e indossai dei leggins blu come la maglietta di Harry che ancora portavo. Guardai l'orologio sulla parete: segnava le cinque e mezza. Mi misi una mano sulla testa, sconfortata dal fatto che, così stanca, avrei dovuto affrontare un'intera giornata.
Uscii dalla stanza chiudendomi la porta alle spalle molto delicatamente, per non svegliare anche il povero Harry che aveva bisogno di dormire. Arrivai in cucina e mi preparai un the caldo. Presi uno dei quattro sgabelli della penisola e aprendo la porta-finestra lo sistemai sul balcone. Tornata dentro casa, presi il the e mi accomodai, lasciando che l'aria gelida mi sfiorasse il viso ed entrasse dentro casa.
L'alba mi aveva sempre appassionato.
Da piccola, con Jace, mamma e papà quando d'estate andavamo in Italia, dove abitava mia nonna paterna, ogni sabato mattina ci svegliavamo presto e con una tazza di latte freddo in mano raggiungevamo la spiaggia che si trovava di fronte a casa della nonna. Ci buttavamo sulla sabbia bianca, fine e comoda come un cuscino e tutti e quattro guardavamo il Sole svegliarsi. Il mare era calmo e si riversava in piccole onde sulla sabbia bagnata; Jace giocava in continuazione a costruire castelli di sabbia che poi venivano sempre calpestati da qualche bambino che voleva fargli i dispetti, lui correva dalla mamma piangendo e facendo i capricci, sapendo che la mamma gliele avrebbe sempre date tutte vinte.
Durante uno di quei sabati nel Sud Italia ricordo che eravamo stretti uno all'altro, mentre sorseggiavamo il latte. Papà mi teneva in mezzo alla sue gambe e il suo viso era appoggiato sulla mia spalla. Mi indicava il mare con la mano destra, mentre con la testa ripercorreva i momenti di quando apparteneva a quella terra, di quando anche lui aveva la mia età e correva per la spiaggia libero. Amavo ascoltarlo mentre parlava della sua infanzia, amavo la sua voce e sentirlo raccontare storie con quel suo tono profondo, calmante e dolce. Ero la cocca di papà. Di quel giorno mi ricordo una frase, una frase che non mi dimenticherò mai. Papà mi stava indicando il Sole e mi disse: "Lo vedi, Sofia?" io con la testa sul suo petto magro, annuii e allora lui avvicinò le sue labbra al mio orecchio e mi sussurrò: "Tu sei il mio Sole, piccola mia." In quel momento mi alzai e lo abbracciai forte ma non capivo davvero l'importanza di quelle parole. Ero il suo Sole, la sua luce, la sua salvezza, il suo amore e il suo domani.
Quel domani che non esiste più.
Una lacrima scese per il viso arrivando fino alle labbra. Mi mancava come l'aria manca a un apneista, come a una pianta manca l'acqua, come al pittore manca il proprio pennello, come allo scrittore manca la propria penna. Lui era troppo importante per me. Anche mamma lo era ma con papà era diverso: lui era il mio migliore amico.
Mi asciugai le diverse lacrime che continuavano ad uscire dai miei occhi e ripresi a bere il the smettendo di guardare il Sole e cercando di focalizzarmi di più sul movimento mattutino di macchine che partivano per andare al lavoro. Finii il the, mentre guardavo una signora sulla sessantina che cantando una vecchia canzone nella palazzina di fronte, stendeva i panni.
Rientrai in casa e trovando Harry in cucina intento a prepararsi un sandwich mi spaventai così tanto, che quasi, lasciai cadere la tazza da the.
"Harry, per l'amor di Dio! Mi hai terrorizzata! Ma... che ore sono?"
Con le dita piene di marmellata alla pesca che stava per portare alla bocca per pulirle, Harry mi disse che erano le sei e un quarto.
"E come mai sveglio? Non vai a lavoro fino alle nove, giusto?"
In quel momento si spostò dal piano cottura alla penisola con il suo sandwich sopra a un piatto di ceramica. Una volta seduto mi guardò mentre dava un morso al suo panino: "Quella è la mia maglietta, Sof?"
Presi una scatola di biscotti e andai a sedermi di fronte a lui prima di rispondergli annuendo.
"E come mai la indossi?" Si leccò nuovamente le dita sporche di marmellata e burro, con uno sguardo indagatore.
"Quante domande! L'ho trovata nella cabina armadio e me la sono messa!" Urlai ridendo.
"Okay, okay." Rise anche lui.
Un rumore di chiavi, che giravano nella serratura, si propagò per la casa rivelando, dopo pochi secondi, Julia scalza con ancora il vestito addosso e i capelli da pazza.
"Ciao, famigliola mia!" Il suo entusiasmo mi colpiva ogni mattina come un pugno nello stomaco.
"Ciao, tesoro." Esclamò Harry.
"Ehi, Juls. Notte folle, eh?" Chiesi mangiucchiando l'ultimo biscotto, forse, il dodicesimo.
"Eh beh, si. Ma voi? Che avete combinato?" Ci raggiunse sedendosi accanto ad Harry.
"Harry ha parecchie cose da raccontarti, vero Harry? Perciò io vado a prepararmi per lavoro ed esco. Ci vediamo stasera." Mi alzai dallo sgabello da bar, lanciai un bacio a entrambi e sparii nel corridoio.
Entrai nella mia stanza solo dopo aver sentito Harry che parlava di Mickey a Julia.

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