Anthea- ✓

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Mi osservai nel riflesso del vecchio specchio incrinato appeso alla parete della grotta. Non mi ci vedevo spesso. Le sirene non hanno bisogno di specchi. Ci basta l'acqua, limpida e viva, per riflettere chi siamo. O chi fingiamo di essere.

Quel giorno, però, mi fissai con più insistenza del solito. Mi scrutai davvero. Ogni angolo del viso, ogni ombra sotto gli occhi, ogni curva ribelle dei capelli. Il mio volto era sempre quello: ovale, con due occhi troppo grandi per un'adulta e quelle ciocche corvine indomabili che iniziavano a diventare un peso anche sott'acqua.

«Forse dovrei tagliarli», sussurrai. Nessuno mi sentì, tranne il silenzio della grotta. E l'eco che mi restituì.

Compivo sedici anni. Sedici. Mi aspettavo di svegliarmi diversa, più simile a mia madre o almeno a mio padre, ma... no. Il mio riflesso era identico a quello del giorno prima. Nessun segno di magia, di potere, di appartenenza. Solo io. Imperfetta, confusa, sospesa tra due mondi.

Sospirai e abbassai lo sguardo sulle gambe. Le gambe... mi ci ero abituata solo da poco. Da quando avevo scoperto come trasformarmi, avevo iniziato ad allenarmi di nascosto. Camminare era ancora un'esperienza aliena, ma mi affascinava. Ogni passo, ogni tentativo goffo, era un piccolo trionfo. Ricordo ancora la prima volta che riuscii a stare in equilibrio per più di un minuto intero: avevo pianto. Di gioia, di frustrazione, non lo so nemmeno io. Ogni volta che riuscivo a reggermi in piedi da sola, sentivo come se stessi diventando... libera. Umana. Reale. E provavo un senso di realizzazione che prima mi era sconosciuto.

La grotta in cui mi nascondevo era il mio luogo sicuro. Una cavità nascosta tra le rocce della barriera, dove l'acqua era sempre tiepida e la luce filtrava dall'alto come una carezza. Lì potevo provare a camminare, ballare, immaginare. Fingere di avere una vita diversa.

Era l'unico luogo in cui potevo essere me stessa. Dove il mio segreto era al sicuro. Nessuno sapeva che avevo imparato a camminare, che sognavo la superficie, che desideravo qualcosa di più del destino che era stato scritto per me. Stavo per fare un altro passo quando un suono acuto e profondo mi fece trasalire.

Il corno reale.

Maledizione.

Nella fretta, lasciai cadere l'unica perla che possedevo, quella che avevo sottratto alla mia matrigna, l'orribile Anastasia. Sentii ancora la rabbia ribollirmi nelle vene al pensiero che il mio arduo lavoro di trovarle fosse andato nelle mani di quella donna orribile e sua figlia. La vidi rotolare tra le alghe, affondare lentamente, quasi con dispetto. Non avevo tempo di recuperarla.

Il corno era stato suonato per chiamare tutte le sirene nubili alla piazza. Quel giorno non era come gli altri. Era il Giorno della Sirena: il più antico e controverso rituale della nostra comunità. Una cerimonia che avrebbe dovuto segnare l'inizio del nostro futuro. O, come nel mio caso, il confronto definitivo con il mio passato. E un nuovo inizio.

Mi lanciai fuori dalla grotta con un tuffo e iniziai a nuotare a tutta velocità verso il centro della città. Il cuore mi batteva forte, e non solo per lo sforzo. Ogni colpo di pinna mi riportava ricordi che avrei voluto dimenticare.

Una volta, tanto tempo fa, sirene e umani vivevano in armonia. Ci scambiavamo storie, melodie, perfino doni. I più coraggiosi tra loro ci raggiungevano sotto la superficie e restavano con noi. Mia madre diceva sempre che le storie condivise tra mare e terra erano le più potenti: capaci di costruire ponti, di guarire le ferite, di cambiare i destini.

Poi arrivò la Grande Caccia.

Non ho mai saputo cosa accadde davvero. Alcuni parlano di sirene crudeli che attiravano i marinai per farli sparire. Altri dicono che gli umani temevano il nostro potere, la nostra bellezza, la nostra libertà. Io so solo una cosa: mia madre morì quel giorno. E io mi salvai solo grazie a lei.

Il Pirata e la SirenaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora