Non sempre le convention sono noiose

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La conferenza si svolgeva in una località costiera, il profumo salmastro dell'aria e la brezza marina ci avvolgevano mentre attraversavamo la hall del resort, che sembrava svuotato dalla folla della stagione estiva. Eravamo in bassa stagione, e questo contribuiva a creare un'atmosfera intima e raccolta, quasi sospesa nel tempo. Il mare, appena visibile dalle grandi finestre panoramiche, scintillava sotto il sole autunnale, regalando una bellezza tranquilla e malinconica, che si sposava perfettamente con l'idea di una settimana di lavoro, riflessione e aggiornamento. Il budget, come ci avevano ricordato più volte, doveva essere rispettato con rigorosa attenzione.

Sette giorni. Sette giorni in cui delegati da tutto il mondo si erano riuniti per condividere esperienze, esplorare nuove soluzioni a vecchie problematiche e partecipare a workshop tematici. Un evento che prometteva tanto, ma che celava dietro la sua facciata di formalità e scambi professionali un'energia vibrante, come se sotto la superficie di ogni discussione tecnica si agitasse qualcosa di più profondo e irresistibile.

Il workshop che avevo scelto non era particolarmente diverso dagli altri, almeno all'apparenza. Ci sedemmo a un tavolo ovale, un gruppo di quattro: io, un olandese dai capelli biondi, un tedesco dall'aria austera e uno statunitense dallo sguardo curioso e un po' divertito. Messa così, sembrava l'inizio di una di quelle barzellette stantie che si raccontano alle cene aziendali. Eppure, c'era una tensione sottile nell'aria, un gioco di sguardi che andava oltre le parole.

I lavori, comunque, procedevano sorprendentemente bene. Il vantaggio di essere in un piccolo gruppo, insieme alla mia propensione a mantenere il controllo e a gestire il tempo in modo efficiente, ci permise di avanzare rapidamente. Sapevo come condurre le discussioni, come dirigere la conversazione verso le soluzioni più pratiche senza impantanarmi in dettagli inutili. Ed era evidente che, nonostante le nostre differenze culturali, eravamo tutti lì con lo stesso scopo: trovare una via d'uscita, una soluzione che potesse funzionare.

C'era, però, qualcos'altro, qualcosa che non potevo ignorare. Tra una sessione e l'altra, durante le pause in cui ci spostavamo verso la terrazza per prendere un caffè o sorseggiare acqua minerale, mi ritrovavo a scrutare l'orizzonte, dove il mare sembrava fondersi con il cielo in un'unica, infinita distesa di blu. Lontano dal chiacchiericcio formale e dai documenti tecnici, lontano dalle rigide agende quotidiane, emergeva qualcosa di inaspettato. Un richiamo primordiale, selvaggio, che sembrava insinuarsi nei momenti di silenzio, come un'onda sottile e persistente che ci avvolgeva tutti. Le barriere professionali iniziavano a cedere, lasciando spazio a una libertà inebriante, qualcosa che andava oltre il semplice scambio di idee lavorative.

Questa sottile corrente ci portò a legarci in modo diverso, più intimo. Nelle pause, non parlavamo più solo di lavoro, ma scoprivamo le bellezze dei rispettivi paesi, tessendo lodi e curiosità reciproche. Era inevitabile, del resto: tutti avevamo viaggiato, vissuto frammenti delle vite degli altri, incrociato le culture. Al termine dell'ultima serata, eravamo diventati un gruppo affiatato, un'alleanza silenziosa che attirava persino lo sguardo curioso degli altri delegati.

La cena di fine lavori segnò il punto di svolta. I convenevoli formali si sciolsero rapidamente in battute taglienti e provocazioni sottili, cariche di una tensione palpabile. Non c'era spazio per fraintendimenti: ogni parola, ogni sguardo lasciava intendere desideri. Mi divertiva vederli, questi uomini, cercare di compiacermi, affascinati dal mio modo di essere. Sapevano di dovermi conquistare, ma non avevano fretta. Era come un gioco, e io, da vera civettuola, ci stavo dentro con gusto, sentendo quel sottile potere scorrermi addosso.

Jan, l'olandese, alto e biondo, quasi della mia stessa età, si muoveva con una certa sicurezza fisica. Non esagerata, ma quei muscoli, ben definiti sotto il suo completo, non passavano inosservati. Al suo opposto, Karl, il tedesco, era slanciato, asciutto, quasi ossuto, eppure mai senza un bicchiere di qualcosa di alcoolico in mano. E c'era poi Luke, il newyorchese: silenzioso, con il baffo sottile e quei riccioli disordinati che gli davano un'aria trascurata ma irresistibile. Non parlava molto, ma ogni volta che lo faceva, la sua voce profonda era una sentenza, capace di farci ridere o di metterci in imbarazzo con una sola parola.

Tra Fantasia e Realtà: Il Mondo di FlaviaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora