Andrea - Che casino abbiamo combinato

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Andrea è un collega. La promozione mi ha portato in una nuova divisione, un contesto diverso, carico di aspettative ma segnato dai fallimenti del mio predecessore. Nonostante le risorse a disposizione, la svolta tanto attesa non era arrivata. Io ero la nuova promessa, il volto del cambiamento. E Andrea? Andrea era il collega con cui avrei dovuto spartire oneri e onori.

La sua fama lo precedeva, non in senso positivo: incompetente, distratto, uno con la testa tra le nuvole. In parole povere, un cretino. Di solito non mi faccio influenzare dai giudizi altrui, ma entrare in una divisione già in crisi e sapere che il mio principale alleato aveva questa reputazione non aiutava.

Il nostro primo incontro avvenne nel suo ufficio. Un approccio formale: un caffè offerto, poche parole sui problemi della divisione, raccontati in modo asettico, quasi distaccato. Quando provai a scavare con domande dirette, mi diede risposte altrettanto dirette, quasi brusche. Poi riuscì a farmi saltare i nervi chiedendomi del mio background. Chi cazzo si crede di essere? pensai. Fino a prova contraria, ero io quella chiamata a salvare il suo culo.

Eppure, nonostante l'irritazione, un dettaglio del suo atteggiamento mi aveva incuriosita. Ma non ero ancora pronta ad ammetterlo.

Dopo quel primo scambio di convenevoli, Andrea mi portò a fare il giro degli uffici, presentandomi ai colleghi con un'efficienza distaccata. Dal giorno dopo, il lavoro sarebbe cominciato sul serio.

Le voci su di lui e la mia prima impressione non avevano lasciato il segno migliore, ma Andrea aveva qualcosa che, quella notte, mi tenne sveglia.

I giorni successivi scorsero tra report e analisi, e di Andrea restavano solo fugaci tracce: un "buongiorno" formale, un "buonasera" sussurrato. Mi ignorava con una precisione quasi scientifica, ma ogni volta che avevo bisogno, era sempre presente, rapido, puntuale.

L'unica persona con cui strinsi un minimo di confidenza fu la segretaria, che, senza che le chiedessi troppo, iniziò a raccontarmi di lui. Rimasi sorpresa nello scoprire che era più vecchio di quanto sembrasse, sposato, con figli. La scoperta, anziché spegnere la mia curiosità, accese un desiderio inaspettato di saperne di più.

Ma ogni tentativo di avvicinarmi si scontrava con un muro: bastava che sfiorassi argomenti personali perché lui si ritirasse, come un animale che percepisce una minaccia invisibile. Una volta, durante un caffè, accennai con leggerezza al fatto che non lo immaginavo sposato e con figli. La sua risposta, gelida e precisa, mi lasciò senza parole.

Non c'era niente da fare? Forse. Con il tempo notai qualcosa: un imbarazzo crescente nei miei confronti, incomprensibile e sottile, che diventava quasi tangibile. Andrea era sempre cortese, attento, persino premuroso nei piccoli gesti: un caffè offerto, una parola gentile. Eppure, ogni volta che parlava con me, si impappinava, evitava il mio sguardo. Cosa avevo fatto?

La sua professionalità e disponibilità avevano demolito i pregiudizi iniziali, ma un'inquietudine sotterranea continuava a pulsare tra noi. La sua gentilezza, disarmante e autentica, senza traccia di secondi fini, mi intrigava e al tempo stesso mi destabilizzava, ero abituata ad altri tipi di approcci. C'era un confine invisibile, una barriera che non era timidezza, ma il segno di un passato doloroso, ancora vivido, ancora vivo dentro di lui.

Fino a quella sera di gennaio.

Ero al bar, assorta nei report e nei miei pensieri, quando il telefono squillò: Andrea. C'era un'urgenza nella sua voce, voleva parlarmi di alcune idee per il lavoro. Insistette. Con un misto di irritazione e curiosità, gli dissi di raggiungermi.

Mezz'ora dopo arrivò. Aperitivo, convenevoli, e discorsi di lavoro. Il tempo scivolò fino alle otto, ma il mio fastidio restava: nulla di ciò che aveva proposto era così urgente da non poter aspettare.

Quando ci avviammo alle macchine, accese una sigaretta. "Ti dà fastidio?" chiese con garbo. "No, siamo all'aperto," risposi. Quel gesto, così attento non era da tutti. La conversazione mutò. Dalle idee per il lavoro, passò a domande personali, intime, precise. Con una perspicacia che mi sorprese, saltava alle conclusioni giuste, lasciandomi ancora di più spiazzata.

Ci salutammo con la promessa di rivederci in modo informale. Parole di cortesia, pensai, perché, in fondo, ero ancora infastidita. Ma c'era qualcosa, un filo teso tra di noi, che ci stava unendo e che non potevo ignorare. Chi era veramente Andrea?

La mattina seguente, sulla scrivania trovai un biglietto: "Grazie per l'aperitivo di ieri sera, era tanto tempo che non mi rilassavo." Io, infastidita dalla serata e lui mi ringraziava? Una differenza di punti di vista che mi lasciò sospesa, incerta su come interpretarla.

I giorni successivi scorsero senza particolari sorprese, finché i biglietti si trasformarono in messaggi su WhatsApp. Il tono divenne più leggero, quasi intimo: battute, provocazioni sottili, un gioco a cui entrambi partecipavamo. Decisi di alzare il tiro, e lui non si tirò indietro.

Poi venne l'occasione: gli chiesi di trattenersi per firmare alcune carte. Mi preparai con cura, con una camicetta bianca, semplice, sotto un reggiseno che lasciava intuire quanto bastava. Il tocco finale? Un bottone strategicamente sbottonato.

All'orario concordato, sentii bussare. Un respiro profondo, poi dissi: "Avanti." I suoi occhi, subito, si posarono su quel dettaglio. La sua reazione, un lampo di esitazione, mi colpì: un misto di nervosismo e desiderio. E in quel momento, il gioco era appena iniziato.

I suoi occhi si posarono immediatamente su quel bottone sganciato, la difficoltà nel suo sguardo mi eccitava. Quando mi avvicinavo, si ritraeva; quando si avvicinava, ero io a spostarmi. Un gioco di tensioni, un elastico teso tra desiderio e controllo.

Poi lo sfidai, domandandogli il significato di un suo messaggio: "Sei una persona interessante, sono felice di lavorare con te." Balbettò. Fu allora che compresi: non gli ero indifferente, non mi era indifferente.

Decisi di spingerlo oltre. Mi mossi appena, facendo scivolare i lembi della camicia quel tanto che bastava per svelare il pizzo sottostante. Vidi il suo sguardo cambiare, non più furtivo ma aperto, bruciante. Ancora esitava. "Ti piace lo spettacolo?" chiesi con un sorriso, provocatoriamente.

Mi spiazzò la sua risposta sincera: "Sì." Poi, senza lasciarmi il tempo di aggiungere altro, mi baciò con avidità. Le sue mani, decise, afferrarono il mio seno, scesero sul mio sedere, in una presa che sembrava voler consumare tutto. Un fuoco improvviso, feroce, che mi lasciò senza respiro.

Mi staccai appena, abbastanza per osservare il risultato: il rigonfiamento evidente nei suoi pantaloni era la prova del mio successo. Avevo vinto questa partita, ma ora il mio obiettivo era chiaro: scoprire se sotto le lenzuola fosse all'altezza di quel desiderio.

Il telefono squillò, un interruttore crudele. Ci guardammo, consapevoli che quel momento doveva finire lì, ma anche che ci sarebbe stato un seguito. "Lunedì sera."


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⏰ Ultimo aggiornamento: 3 days ago ⏰

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