Norman - I vantaggi della gerarchia

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Sul posto di lavoro sono inflessibile. Ho lottato duramente per ottenere ciò che ho, e nulla al mondo può farmi perdere ciò che ho conquistato. Competenza, prestigio, autorevolezza, indipendenza, anche economica: tutto costruito con fatica e determinazione. Il lavoro è sacro, separato da ogni altra cosa, almeno fino a quando non ho incontrato Norman, un collega con cui condividevo l'ufficio ogni volta che tornavo alla casa madre, tra una trasferta e l'altra. Una presenza familiare, costante.

La sera spesso ci capitava di uscire insieme, prendere un drink, chiacchierare del più e del meno. Entrambi stranieri in una città che non era la nostra. Anche lui era un uomo in carriera, il lavoro sopra ogni cosa. Diventammo complici in quella frenesia lavorativa che ci spingeva sempre a cercare di più, persino a sfidarci in palestra. Le nostre corse mattutine e gli allenamenti diventavano momenti di respiro in un mondo che non conosceva pause. Se uno di noi era pigro, l'altro lo incitava, una forma di simbiosi.

Poi, un giorno...

La palestra era diventata il nostro rifugio, il luogo dove lasciare ogni pensiero esterno e concentrarci solo su noi stessi. "Mens sana in corpore sano" mi ripeteva ogni volta, con quel suo tono che oscillava tra l'istruttore professionista e il confidente devoto. Per lui, il benessere fisico era essenziale per mantenere l'equilibrio mentale, e aveva preso molto sul serio il compito di guidarmi in questo percorso. Aveva studiato per me un programma di allenamento meticoloso, calibrato non per aumentare il volume dei miei muscoli ma per scolpirli, renderli definiti. Ogni movimento, ogni peso, ogni ripetizione era pensata da lui con un'attenzione quasi maniacale.

Norman mi seguiva passo passo, correggeva ogni piccola postura, ogni minimo errore, per evitare che il mio corpo assumesse posizioni dannose. I suoi consigli erano decisi, ma sempre con quel tocco di cura, come se sapesse esattamente quanto a lungo potevo spingermi senza perdere il controllo.

Con il tempo, mi era diventato impossibile ignorare la sua presenza, non solo come guida, ma come uomo. Quando mi allenavo alla panca, lui si posizionava dietro di me, pronto a sorreggere il bilanciere in caso di necessità. Da quella posizione, potevo apprezzare la sua dotazione racchiusa in quei pantaloncini. Ed era lì, sopra di me, che una curiosità irresistibile aveva iniziato a insinuarsi. Avrei voluto che osasse di più, andare oltre. Lui ormai non era più di un semplice collega, eppure non si era mai permesso un passo azzardato. La nostra dinamica era complessa: per quanto fosse tra i migliori, nel nostro ambiente la gerarchia contava, e Norman rispettava i confini con una dedizione quasi ammirevole. Sapevo che spettava a me dare il primo segnale, e così decisi di mettere alla prova il nostro gioco di sguardi e silenzi.

L'occasione arrivò durante un esercizio per i tricipiti, quello in cui dovevo appoggiare un ginocchio sulla panca e sollevare il peso in una ripetizione ritmica e regolare. Scelsi di indossare dei fuseaux bianchi, aderenti, senza intimo; un piccolo dettaglio che avrebbe potuto dire tutto senza che pronunciassi una parola. Mentre mi allenavo, sentivo il suo sguardo intenso alle mie spalle, e dallo specchio potevo vedere che, più che alla schiena, la sua attenzione si concentrava altrove. Ogni movimento accentuava le curve, e il suo sguardo, penetrante e quasi ipnotico, forse avevo fatto centro.

Feci una pausa, fingendo di sbagliare il movimento, e lui subito lì, con una mano ferma sulla mia schiena per correggere la postura. Ma quando mi sfiorò, si avvicinò di più, il corpo che lentamente si allineava al mio. Con un gesto appena percettibile, mossi il bacino, avvicinandolo, e lui rimase ancora lì, il respiro che si fece più profondo. Nel riflesso dello specchio, i nostri sguardi si incrociarono, un gioco sottile che si stava trasformando in qualcosa di più.

Il passo successivo fu una serie di squat, e, spingendo al massimo, lasciai che le gambe cedessero, come fosse un cedimento involontario. Norman era pronto, le sue mani sicure mi afferrarono ai fianchi per sostenermi, ma le sue dita scivolarono e si posarono sul seno. Rimanemmo così, un respiro lungo e sospeso tra di noi. Sentivo il suo desiderio gonfiare i pantaloni, tangibile, presente, e il nostro contatto allo specchio divenne uno specchio stesso di quello che entrambi volevamo.

Quando posammo il peso, mi girai. Senza una parola, lo attirai a me e lo baciai, un bacio famelico, colmo di tutto il desiderio rimasto represso fino a quel momento. Non ci furono parole. Non ce n'erano bisogno. Il linguaggio del corpo era più eloquente di qualsiasi spiegazione.

Senza nemmeno terminare l'allenamento, corremmo agli spogliatoi, docce rapide, cuori martellanti. Quando salii sulla sua macchina, non andammo da me. Andammo da lui. Non appena varcata la soglia della sua casa, quel clic della serratura segnò l'inizio di una corsa sfrenata, un abbandono totale. Ci avvinghiammo, respiri sempre più rapidi, mani che esploravano, stringevano, tiravano. In pochi istanti eravamo nudi, i nostri corpi si cercavano con una fame mai saziata.

Ricordo ogni dettaglio. Mi piegò sul tavolo della cucina, senza esitazione, mi prese, duro, senza chiedere, senza preoccuparsi. Ma non ce n'era bisogno. Ero già pronta, ogni spinta si trasformava in un gemito, e lui mi teneva per i capelli, tirandomi indietro, dominando ogni movimento. Quando si fermò per riprendere fiato, toccò a me prendere il controllo. Lo girai, lo feci appoggiare al tavolo e presi il suo cazzo in bocca, profondo, fino a sentire le sue mani stringersi sulla mia testa, bloccandomi mentre godeva di quel momento. Quando venne, il suo seme riempì la mia bocca, denso e copioso. Gocciolai volontariamente una parte sul mio petto, e la vista del mio corpo cosparso della sua sborra riaccese immediatamente il suo desiderio. Vidi chiaramente i guizzi del cazzo che lo riportavano al turgore iniziale.

Non finimmo lì. Ci trascinammo fino al letto, dove continuammo a scopare, senza tregua, sfogando ogni briciolo di tensione accumulata. Il tempo si fermò quella notte. Sembrava di trovarmi in un film porno, immersa in un'esperienza sensoriale dove ogni posizione che la nostra fisicità e fantasia ci consentiva di esplorare con piacere. Ogni tocco, ogni movimento era un invito a lasciarsi andare ad un orgasmo, mentre il suo instancabile desiderio si manifestava in modi inaspettati. Fui scopata non solo dal suo instancabile cazzo, ma anche da ogni oggetto che la nostra immaginazione riusciva a concepire, arricchendo quel momento di un'intensità e di una sensualità che superava ogni limite conosciuto. Solo il giorno dopo, esausti, cercammo di rimettere insieme i pezzi di noi stessi. Dovevo partire di nuovo, ma ci promettemmo di riprendere da dove avevamo lasciato, con il vincolo che nessuna parola su quella serata doveva uscire dalle nostre bocche.

Al mio ritorno, Norman era in ferie. Io ripresi la mia routine, lavoro, palestra, casa, tutto come prima. Ma una sera, in palestra, a pochi attrezzi da me, alcuni colleghi parlavano, ridendo di donne. E poi sentii il suo nome. Norman. Si vantavano, con frasi volgari e dettagli che conoscevo fin troppo bene. Lui si era fatto una collega, dicevano. Una troia. Mi bloccai. Sapevo che non ci sarebbero voluti molti sforzi per capire che parlavano di me. La rabbia mi montò, calda e bruciante.

Il giorno dopo, Norman venne trasferito. Un'altra divisione, un'altra città. Il potere di chi sa muoversi nel mondo del lavoro, di chi ha conquistato il prestigio e l'autorevolezza necessari per proteggere ciò che conta davvero.

Il resto, lo lasciai scivolare via. Perché alla fine, il lavoro resta il mio regno. E nulla, neanche Norman, poteva minacciarlo.


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