25. Sarah

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Sarah

Alexander era uscito da due ore e ancora non rientrava. Se non ci fosse stato il senso di colpa per la nostra discussione, la preoccupazione avrebbe divorato tutto lo spazio dei miei pensieri.

Fuori stava scendendo il buio ad avvolgere il lago e le foreste, e stava ancora piovendo. L'intensità della pioggia era diminuita, ma l'aria era fredda e tagliente. Continuavo a spostarmi da una finestra all'altra, sperando di vederlo arrivare e la nostra conversazione mi riverberava in testa, penetrando come una lama in profondità.

Sei anni infiniti, un mese e dodici giorni di guerra sfibrante per cancellarti dalla mia testa e dalla mia vita, senza svegliarmi ogni giorno pensando a dove fossi e con chi e a cosa avessi perso. Quindi, onestamente, tre mesi per me non sono un cazzo di niente.

Se pensava che per me fosse diverso, si sbagliava.

Anche per me era stata dura, strapparmelo dal cuore e della mente, accettare quello che aveva fatto a Josh, smettere di considerarlo parte della famiglia. Lui aveva rovinato tutto, non noi. E poi come poteva dirmi quelle cose e un attimo dopo ignorarmi come se neanche fossimo nella stessa casa?

L'odore di bruciato invase la cucina, allarmandomi sul fatto che stavo carbonizzando la cena. Non avevo cucinato per qualcuno in particolare, anzi, il mio stomaco era annodato come una corda di nylon, e faceva male. Ma se fossi rimasta lì ferma ad aspettare sarei uscita fuori di testa. E se avessi continuato a editare avrei rovinato dei video buoni rendendoli una merda inguardabile.

Lui pensava che io volessi un rapporto cordiale e disteso, ma si sbagliava.

Non sapevo neanche io che cosa volevo, ma sapevo cosa mi faceva sentire.

Rabbia, per quello che aveva fatto.

Eccitazione, perché mi faceva ancora effetto averlo intorno, forse più di prima, perché ora ero cresciuta e sapevo dare un nome al desiderio che provavo.

Sollievo, perché mi era mancato, Dio solo sa quanto, e ritrovarmi a parlare con lui, scherzare, battibeccare e flirtare, era come respirare di nuovo dopo una lunga e faticosa apnea.

Dolore, perché mi sentivo in colpa per essere lì, a provare tutte quelle cose, mentre Josh era ignaro e se lo avesse scoperto non mi avrebbe mai perdonato.

Il fatto era che Alexander mi era mancato così tanto, che in poche settimane, l'odio nei suoi confronti stava sbiadendo sempre di più.

Spensi il fornello e in quel momento sentii la serratura scattare. Alex era tornato.

Corsi in corridoio e lo vidi fermo sullo zerbino, grondante dalla testa ai piedi, con la faccia bianca e le braccia strette al petto.

«Entra, ho acceso il fuoco» azzardai, «penserò io ad asciugare il pavimento poi.»

Lui non ribatté. Si sfilò con un gesto secco la maglietta di dosso e rimase a torso nudo. Poi fece leva sui talloni e calciò via le scarpe, una dopo l'altra e infine entrò, puntando alle scale.

Lo lasciai andare via, senza aggiungere altro e per venti minuti seguì il silenzio.

Quando le assi dei gradini presero a scricchiolare, impiattai un po' dei miei spaghetti al sugo bruciacchiati in due piatti bianchi e li posai sul tavolo. Alex spuntò in cucina poco dopo, con addosso una tuta grigia e larga, dall'aria calda e confortevole.

Cosa avrei dovuto dirgli, dopo la sfuriata di prima? Scusa, mi dispiace, hai frainteso?

Probabilmente sì, ma invece dissi: «ho preparato della pasta» lui mi guardò serio e a lungo, «versione vegetariana, ovviamente, ma l'ho bruciata, quindi potrebbero essere spaghetti al pomodoro con sentore di sugo carbonizzato» feci spallucce.

WILD HEARTSDove le storie prendono vita. Scoprilo ora