Capitolo 13 - Il conflitto

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Quando finalmente mi decisi a fare il primo passo, lui stava parlando con un giovane agente, illustrandogli qualcosa su una cartellina. Mi fermai a pochi passi, incerta se interromperlo, ma alla fine trovai il coraggio.

«Mi scusi.» dissi, e lui si girò verso di me, con un'espressione che tradiva un'iniziale insofferenza.

Mi guardò con occhi curiosi ma non realmente interessati.

«Vorrei parlarle, è una questione importante.»

«Un attimo, signorina. Sarò da lei tra un momento.» rispose freddamente, tornando al suo discorso.

Non avevo tempo da perdere. Mi avvicinai di un passo e abbassai la voce, ma abbastanza da farmi sentire chiaramente.

«È qualcosa che riguarda il mostro di Portland.»

A quelle parole, l'aria sembrò fermarsi. L'uomo interruppe immediatamente quello che stava dicendo, la sua testa si girò verso di me, e il giovane collega accanto a lui si irrigidì visibilmente.

Per un istante ci fu solo silenzio. Poi, l'ufficiale incrociò le braccia al petto, scrutandomi con più attenzione.

«Bene, seguimi.» disse con un tono basso ma fermo.

Poggiò una mano leggera sulla mia schiena, quasi a guidarmi ma anche a controllare che non facessi nulla di avventato, e mi indirizzò verso un ufficio.

L'ambiente era piccolo ma ordinato, con una scrivania di legno chiaro e un paio di sedie di fronte. Di lato c'erano un distributore d'acqua e una stampante accesa che emetteva un leggero ronzio.

L'ufficiale chiuse la porta in vetro dietro di noi, lasciando fuori lo sguardo curioso del collega. Poi mi fece cenno di sedermi.

«Hai cinque minuti.» disse, puntandomi con uno sguardo penetrante. «E ti consiglio di far sì che valgano la pena.»

Mi sedetti, stringendo le mani per controllare il tremito.

«So dove si nasconde il ragazzo accusato di essere l'assassino.» iniziai, attirando immediatamente l'attenzione dell'uomo di fronte a me.

«Ma prima devo mostrarvi delle prove che dimostrano che non è lui il vero colpevole.» proseguii, estraendo il telefono dalla tasca e mostrando le foto che avevo scattato della cartella clinica di Nicholas.

L'uomo aggrottò la fronte, comprendendo che non gli avrei rivelato dove si trovasse il ragazzo finché non gli avessi mostrato le prove che avevo in mano.

Il signor Coleman, come lessi dalla targhetta dorata posta sulla divisa, non disse nulla, ma prese il telefono dalle mie mani con cautela, iniziando a guardare le immagini mentre parlavo. Ogni fotografia evidenziava le incongruenze che avevo trovato, dettagli che nessuno aveva mai notato prima.

L'ufficiale le esaminò in silenzio, gli occhi concentrati sullo schermo. Il suo volto rimase impassibile, ma potevo notare un leggero cambiamento nel suo sguardo, come se stesse mettendo insieme i pezzi di un enigma complicato.

Mi chiesi se fosse riuscito a cogliere l'importanza di ciò che gli stavo mostrando, ma non osai interromperlo.

«Come hai avuto questo materiale?» sembrò quasi più un'affermazione che una domanda.

La sua voce era bassa, ma ferma, mentre continuava a scrutare le immagini sul mio telefono, che teneva tra le mani callose, mentre cercavo di non far trasparire il tremore che stava prendendo piede nel mio corpo.

Dei lunghi attimi di silenzio passarono, ma poi risposi, cercando di mantenere la calma. «Sono un'infermiera al Willow Creek Asylum di Portland.»

La mia voce era più ferma di quanto mi aspettassi, ma il cuore mi fece male da quanto martellava nel petto.

Echoes ; Nicholas Chavez Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora