Capitolo 9

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Casco nero

Two months and seven days
before her memory loss

«Ragazzo!»
Vengo richiamato più e più volte ma continuo a camminare a passo svelto verso la mia moto.
Lancio la cicca della sigaretta lontano, in qualche angolo di questo dannato parcheggio.

«Fermati!»
Continua l'agente di polizia, inseguendomi.
Arresto il mio passo in un ringhio, voltandomi verso di lui.
«Cosa?» urlo «Cosa cazzo volete ancora? Lei non c'è, non l'avete trovata, che cazzo vuole da me?»
Lui si piega sulle ginocchia, riprendendo fiato.
«Solo perché hai degli agganci in famiglia non significa che possiamo mettere a soqquadro l'intero stato!»
Sento la pelle andarmi a fuoco, me ne devo andare di qui e anche subito.
Gli dò le spalle e monto in sella, acchiappando malamente il casco.
«È il vostro cazzo di lavoro, trovare le persone» ringhio basso «Significa che la troverò da solo» e levo il cavalletto, pronto a dare gas.
«Dovresti smetterla di cercarla» continua l'uomo, facendomi chiudere gli occhi in una smorfia di rabbia.
Ma lui che cazzo ne sa?
«Sei un ragazzino, non puoi passare la vita a viaggiare per tutte le centrali di polizia americane per una persona che non vuole farsi trovare» sbraita.
«E lei che cazzo ne sa?» mi volto furioso, con le mani sul manubrio «Che cazzo ne sa che non vuole essere trovata? Che cazzo ne sa che non ha bisogno di aiuto? Mi faccia un favore» accendo il motore.
«Si limiti a svolgere il suo lavoro e chiamarmi se ha trovato qualcosa, alla mia cazzo di vita ci penso io»
Mi lego il casco stretto sul mento.
«Ci ho sempre pensato io» mormoro più basso.

L'agente sbuffa come se davanti avesse un bambino che fa i capricci, gira i tacchi e torna al suo posto di lavoro.
Rimango diversi minuti a fissare la strada, con il motore acceso sotto il culo e il casco messo.
Lei non si sarebbe arresa con me, se io fossi scappato via mi avrebbe cercato per tutto il mondo, altro che l'America.
Mi diceva sempre che non sarebbe mai andata via, che voleva passare il resto della sua vita con me, a viaggiare insieme, non può averlo fatto da sola senza dirmi niente.
Non può essersene andata senza dirmi niente.
E se l'ha fatto, devo trovarla per urlarle addosso tutto il mio ripudio.

Una vibrazione nella mia tasca interna mi risveglia dai ricordi che mi stavano scorrendo sulle iridi.
La ignoro, e mi abbasso la visiera nera sulla testa.
Ma il telefono squilla di nuovo ed io urlo un'imprecazione.
Lo sfilo dalla tasca e rispondo senza leggere il mittente della chiamata.
«Cosa?!» sbraito.
Sento delle interferenze dall'altro capo del telefono, come se qualcuno lo stesse scuotendo.
Poi, un respiro soffice.
«Hai presente la favola di Cenerentola?» un soffio rallentato.
Che cazzo? Guardo lo schermo per leggere il nome di chi sta parlando come se non avessi già riconosciuto la voce.
Mi guardo intorno non sapendo come rispondere, ma non serve.
«Perché non se n'è semplicemente andata?»
«Che cosa?»
«La torturavano, in quella casa» altre interferenze «Odiava quella casa, anche se prima era il suo posto preferito» un minuto di silenzio in cui ho le labbra spalancate ma non esce un suono.

«Perché non è andata via?» la sua voce incrinata, adesso, e a malapena riesco a sentirla.
Dio mio, ma che cazzo ne so?
«Perché non aveva le palle»
«Si» sbuffa «Forse hai ragione»
Davvero?
Rimango in silenzio, con quell'aggeggio spiaccicato sulla faccia e i palmi sudati dentro ai guanti.
«Le mancava qualcosa» continua, dopo interminabili minuti di silenzio.

La chiamata è azionata da venti minuti e noi non ci siamo detti nulla.
«Cosa?» mi guardo intorno.
«Qualcuno che la venisse a prendere» la sua voce è ovattata, come se fosse chiusa dentro un armadio o da qualche parte.
Accendo di nuovo il motore.
«Dove sei?»
«E poi quella dannata scarpetta» e ride «Poteva tornare a prenderla»
«Mia» ringhio, non mi ricordo di averla mai chiamata per nome.
«Dove cazzo sei?»
«Sei su una moto?» mi chiede di rimando.
«Esatto» incastro il cellulare nel casco e do gas, uscendo dal parcheggio, mi accosto al marciapiede e avvio la videochiamata.

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