Prologo

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Casco nero

Three months and twelve days
before her memory loss

March

Il telefono vibra nel mio orecchio, ma non è la suoneria, ma la mia mano che lo stringe.

Pianto una mano sul fianco e rivolgo lo sguardo al paesaggio strabiliante che si vede dalla collina di Sunbelt.
Uno squillo, due squilli, tre squilli e parte la segreteria.
Merda, non avrebbe risposto nemmeno se fossi stato sul punto di cadere da una rupe.

Mi guardo intorno e non vedo il resto di niente.
Questo posto al buio mette i brividi, e forse è per questo che ne sono così tanto attratto.
La luce dello schermo mi illumina la faccia, e lascio scorrere il mio pollice su di esso, scrollando i vari messaggi che tenevo ancora nella segreteria.

Non ne ascolto mai uno, forse è per questo che adesso ne ho duecentoventidue.
Assottiglio lo sguardo sull'ultimo e sulla sua durata, e decido di premere play.
Lo porto di nuovo all'orecchio, facendo un giro tondo sul posto e ammirando Mesonville dall'alto.

Poi, la voce proveniente dal cellulare cattura tutta la mia attenzione.
"Smettila di cercare, non sei stanco?" sbuffa la voce di mio padre "Torna a casa, ti stiamo aspettando tutti. Jenna vuole conoscerti, puoi anche non considerarla parte della famiglia per il momento, ma potresti almeno degnarla di un saluto" sospira, sembra sfinito "Quella donna ti vuole bene, e anche io" la mia mascella si stringe, le mie nocche iniziano a bruciare per il modo in cui sto stringendo il telefono "Torna a casa".

Rimango a fissare il vuoto finché il messaggio registrato non termina, e minaccia di ripartire da capo.

Fanculo.
Se lui si è arreso e ha smesso di cercare non significa che devo farlo anche io.
Non sono uno che si arrende, non sono uno che da per perso ciò che non lo è.
Si perde solo ciò che non si cerca abbastanza, e se dovrò impiegare tutta la vita per farlo e qualsiasi mezzo, allora non aspetterò altro.

Il mio corpo trema di rabbia, i miei pugni si stringono e in un moto d'ira il mio braccio lancia lontano, con veemenza, il mio cellulare.
Questo, va a finire fra la carcassa di macerie di cui questo posto è pieno.

Mi sarebbe servito, ma non è a questo che penso quando il mio cellulare fa rumore nell'atterrare al suolo, ma ad una voce.
Un urlo, piccolo, corto e di paura, che mette sull'attenti il mio corpo.

Non sono solo, non c'è alcun dubbio.
Mi sporgo col busto oltre la montagna di macerie che ho davanti, ma i miei occhi non intercettano il resto di nulla.
Non posso essermelo immaginato, cazzo, non sono pazzo fino a questo punto.

Cammino lentamente e a passo felpato in direzione dell'urlo che ho sentito, e i miei pugni si preparano a qualche ragazzino di zona, gruppetto di bambini o un barbone in cerca di riparo.

Invece, tutto quello che mi si para davanti, è una ragazza.
O almeno, la sagoma scura di una ragazza.

Fermo i miei passi a qualche metro da lei, e assottiglio lo sguardo cercando di capire chi ho davanti.
Metto a bada i miei riflessi quando realizzo che con la sua altezza mi arriverebbe a stento alla spalla.

Lei è in piedi, sembra spaventata, tiene i pugni serrati e sulla difensiva, e lo sguardo basso con il viso coperto dai capelli.
«Chiariamo una cosa» la voce burbera e sicura, un po' tremante «Siamo soli, qui, ma io ho il gps del cellulare attivato e se mi tocchi, hai il sessanta per cento di possibilità di essere scoperto» continua minacciosa, mentre l'ombra di un sorriso inizia a deformarmi le labbra.

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