Capitolo V

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Quanto odio il martedì. In tutta la settimana non c'è giorno peggiore del martedì. E questo più di tutti.

Arrivo a scuola un quarto d'ora più tardi perché quel bastardo di conducente dell'autobus non mi ha visto, o meglio ha fatto finta di non vedermi. Entro in classe di corsa, attiro l'attenzione del profe e così vengo interrogata in matematica e prendo una fantastica, ennesima insufficienza. Poi due ore con quel licantropo di quella di francese, una nel campo di concentramento del colonnello Bissolati di ginnastica a fare la prova dei 1200 di corsa. E per concludere al meglio, l'ultima ora di spagnolo, in cui il professore ha fatto una sfuriata assurda di quasi quaranta minuti alla classe perché la maggior parte di noi non aveva fatto i compiti per casa, minacciando di metterci una nota di classe e interrogare a tappeto sull'ultima lezione.

Bel modo davvero di iniziare una giornata. Non vedo l'ora che siano le sei per andare in piscina e nuotare, finalmente.

L'agognata campanella delle due suona e mi precipito giù dalle scale per prendere la prima filo per la stazione.

In un attimo sono fuori dal cancello della scuola e attraverso la strada: la filo è già piena di gente e sta per partire. Devo muovermi se non voglio perdere il pullman in stazione.

Evito per un pelo un'auto e salto su al volo. Le porte si chiudono dietro di me e mi ci appoggio, cercando di togliermi lo zaino e posarlo ai miei piedi. Credo che qui dentro non ci starebbe nemmeno una formica da quanto siamo ammassati l'uno addosso all'altro. Ora c'è solo da sperare che questo dannato autobus arrivi in stazione in fretta, se no correre non sarà servito a nulla, contando che dalla fermata raggiungere l'autostazione dove si trova il mio pullman sono almeno due minuti a piedi.

Continuo a guardare ansiosamente l'orologio: 14.05, 14.07, 14.12 ... Dai, muoviti!

La filo gira verso i portici della stazione che sono le 14.19. Ancora un minuto prima che il mio pullman parta senza di me. Le porte dell'autobus si aprono ed è l'inferno: fiumi di ragazzi che si precipitano fuori dal mezzo, ognuno verso una direzione diversa, chi corre e spintona e chi si ferma in mezzo alla strada e non lascia passare. Io faccio parte della prima categoria. Balzo giù dalla filo e inizio a correre verso l'autostazione.

Nemmeno il tempo di fare due metri e subito mi scontro contro qualcosa, e mi ritrovo a pancia a terra, le mani e le ginocchia che scorrono sull'asfalto provocandomi un dolore acuto.

Il mio primo pensiero va al ridicolo spettacolo che ho offerto a tutta la gente nella stazione, ma subito cerco di rialzarmi. Nonostante i jeans, credo che le mie ginocchia siano andate a farsi fottere. Le risatine di sottofondo che invadono l'aria circostante a me aumentano solamente il mio nervosismo.

Alle mie spalle sento una voce che si avvicina: "Ehi, scusami! Tutto bene?"

Non ci faccio caso e osservo le mie mani: la pelle del palmo sinistro è saltata e la mano destra sanguina un po'; bruciano tantissimo entrambe. Non ci provo neanche a riprendere la corsa per prendere il pullman, tanto ormai a questo punto sarà già andato, e in ogni caso non credo riuscirei a correre dopo un volo del genere.

E adesso dovrei aspettare il treno delle tre e mezza e tornare a casa un'ora dopo? Fanculo!

Poi, una mano sulla spalla e la stessa voce che ripete la domanda: "Tutto bene? "

Mi giro di scatto. "Ma guarda dove vai, testa di rapa!" sbotto.

C'è un ragazzo di fronte a me. Mi porge la mano per aiutarmi ad alzarmi. Ha capelli castani e grandi occhi verdi. Due espressivi occhi di smeraldo che mi fissano preoccupati e colpevoli a una ventina di centimetri dai miei.

Il cloro: la nostra drogaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora