Capitolo XXI

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Un fischio lungo, salgo sul blocco, e non appena la pianta del mio piede tocca la plastica ruvida, qualunque tipo di pensiero nella mia testa si dissolve, e restano solo l'acqua, la corsia ed io. E per qualche secondo il vuoto, le azioni si susseguono automaticamente. Ciò che normalmente necessiterebbe di un controllo attivo da parte della mia mente ora diventa come una sorta di comando viscerale, come lo sono il respiro, il battito cardiaco, la vasodilatazione. Come se ciò che sto facendo ora – salire sul blocco, ascoltare le parole al microfono, attendere il via – fosse qualcosa di totalmente automatico, semplice, fisiologico; qualcosa per il quale il mio corpo è stato appositamente fatto.

Riprendo coscienza di me solo quando percepisco il freddo al momento dell'immersione successiva al tuffo. Mi lascio scivolare per non più di un secondo e inizio la subacquea.

Riemergo con le sole braccia e ai 18 metri respiro per la prima volta. Arrivo un po' lunga alla virata dei 25 metri, ma recupero i decimi persi con una subacquea molto veloce. Alla prima respirazione, faccio affidamento alla mia visione periferica per tenere d'occhio le mie avversarie. La ragazza alla mia sinistra mi è alle spalle di un metro, mentre quella con cui mi ero trattenuta in chiamata, ora alla mia destra, mi distanzia gradualmente. Per la durata di un istante, penso che non valga la pena provare ad inseguirla, perché lei – se punta agli Italiani in questa gara – va sicuramente molto più veloce di me. Poi però penso cazzo, questa è una gran stronzata; anche io ho come obiettivo gli Italiani, e per di più in una specialità dello stesso stile. Perciò fanculo. Posso tenere il suo ritmo. Non mi tratterrò come nei 200 stile.

Fisso il ritmo di respirazione a due bracciate e, nonostante non recuperi terreno rispetto a lei, non mi lascio staccare.

Raggiungo la piastra stavolta con una bracciata di troppo. Cristo, Arianna, concentrati. Bracciata, gambata, gambata, bracciata. Respiro. Non ti mollo. Giuro che ti raggiungo. Non cederò, non come prima. Bracciata, gambata, gambata, bracciata. Virata, subacquea.

Mi concedo di guardare per l'ultima volta il distacco fra noi. È aumentato, di molto. Lei ora è già oltre la metà vasca. Cazzo.

In automatico, il mio corpo aumenta la frequenza dei movimenti, a discapito dell'efficacia di bracciata. Devo cercare di recuperare. Non riuscirò a raggiungerla, è troppo avanti. Ma almeno voglio essere certa di non arrivare in fondo sapendo che non avrei potuto fare di meglio. Respiro un'ultima volta e poi metto il pilota automatico. Non penso più a nulla. Non devo sentire dolore né fatica, non ne provo, devo convincermene. Devo solo pensare a resistere fino alla piastra.

E finalmente la raggiungo, e non appena mi fermo, il dolore si propaga a macchia d'olio nei miei muscoli, in una sensazione fastidiosa, ma allo stesso tempo calda e familiare.

Una voce alla mia destra grida il mio nome. "Arianna! Ce l'ho fatta! Ce l'ho fatta!"

La mia amica-nemica ha un'espressione stanca, ma tanto felice che anche la stanchezza che provo io stessa passa in secondo piano, e – seppur senza aver realizzato ancora il motivo di tanta gioia – mi sorprendo a sorridere anch'io.

Mi sostengo alla corsia che ci separa e lei mi abbraccia goffamente. "Ci sono riuscita, Arianna! Ho fatto il tempo per gli Italiani!"

Inaspettatamente, sento terribilmente vicine la sorpresa e la soddisfazione di questa quasi sconosciuta. "Sul serio? Bravissima!" esclamo sinceramente.

"Non ci posso credere, guarda!" Ma i tempi sono già spariti dal tabellone. Non ho visto neppure il mio.

"Bè, era sotto solo di tre decimi, ma sono stati sufficienti" mi assicura, ma credo che si stia rivolgendo più a se stessa che a me, ora.

Il cloro: la nostra drogaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora