Chapter One

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Liam

Mi svegliai di soprassalto quando una mano gentile mi accarezzò delicatamente il viso.

«Scusa, tesoro» mi disse Maria, guardandomi seriamente dispiaciuta per aver interrotto il mio sonno tranquillo.
Erano solo le sei del mattino, eppure di solito ero già sveglio sul mio letto, aspettando l'infermiere di turno che sarebbe entrato per prelevarmi il sangue. Tutti i giorni.

«Sei sempre sveglio a quest'ora. Hai dormito male?» chiese l'infermiera dolcemente, iniziando a preparare l'occorrente per il prelievo.

«Veramente ho dormito molto bene, ma non preoccuparti» la rassicurai con un sorriso, porgendole il braccio.
Maria infilò l'ago con molta attenzione, cercando la vena, e non potei fare a meno di sussultare. Quella storia andava avanti da chissà quanti giorni, eppure l'unico infermiere capace di non farmi sentire neanche un pizzico era Niall, un simpatico biondino irlandese, fresco di laurea ma con la bravura di un veterano del mestiere.

A proposito del biondo. «Niall non c'è?» chiesi a Maria, che nel frattempo mi aveva coperto il buchino con un pezzetto di ovatta fermata con un cerotto.
Era martedì, e sarebbe dovuto essere il suo turno, invece non c'era.

«No, tesoro» disse la donna «abbiamo fatto un cambio, mi sostituirà oggi pomeriggio. Spero di non averti fatto troppo male» continuò poi.

Sorrisi e «No, figurati, stai tranquilla» la rassicurai di nuovo.

Maria era una donna sulla cinquantina, bassa e ben piazzata, ma mi piaceva. Adoravo la sua voce tranquilla, che riusciva a rilassarmi, e il tocco delicato delle sue mani, ma la cosa che più amavo di lei erano i suoi occhi blu: quelli erano gli occhi di chi fa il proprio lavoro non per ricevere a metà mese lo stipendio, ma per vera passione.

«Liam, lo so che solo Niall non ti fa male» rise la donna, avviandosi all'uscita della camera.

Io risi di rimando e «Ci vediamo presto, Mary» la salutai, notando che scosse la testa prima di uscire definitivamente.

Maria lavorava in quell'ospedale praticamente da sempre e mi aveva visto crescere lì dentro, tra un problema e l'altro, e per lei ero diventato il figlio che non aveva. Questo lo sapevo perché un pomeriggio me l'aveva detto. Aveva finito il suo turno, così era entrata nella mia camera senza il suo camice e si era seduta accanto a me.

«Non vai a casa?» le avevo chiesto.

«Vorrei farti compagnia, se non ti dispiace. Tanto a casa non ho nessuno che mi aspetti, mentre qui posso prendermi cura di te, ragazzino» aveva risposto lei, con un filo di malinconia nella sua voce, ma senza negarmi un sorriso sincero.

«A me fa solo piacere» le avevo detto, ed era la verità. In fondo, non era l'unica ad essere sola. Lei non aveva né un marito né un figlio ed io non avevo né un padre né una madre.
Era come se fossimo fatti l'uno per l'altro e da quel giorno vissi con la consapevolezza di poter contare su qualcuno come fosse una figura materna, quella che era venuta a mancare quando avevo appena dodici anni, lasciandomi da solo in un ospedale che era troppo grande per un ragazzino piccolo e malato come me.

Chiusi gli occhi, cercando di riaddormentarmi, ma ormai era troppo tardi. Avevo questo difetto, io: se mi svegliavo, mi era davvero difficile riprendere sonno, infastidito da qualsiasi cosa intorno -o dentro- di me.
Così decisi di alzarmi per andare a farmi un giro. Ero sveglio da pochi minuti, eppure quel giorno la mia stanza mi sembrava più triste del solito. Forse perché al mio risveglio avrei voluto trovare i raggi del sole nell'ambiente -mi mancava il sole-, mentre dalla grande finestra accanto a me riuscivo a vedere solo il tipico cielo grigio di Londra.
Allora appoggiai i piedi per terra, ringraziando il cielo che il cancro me li avesse lasciati entrambi, attaccandomi solo il pancreas e i linfonodi, e iniziai a camminare fuori da quel triste grigiore.
A quell'ora del mattino i pazienti dormivano e gli orari di visita non erano ancora iniziati, così i corridoi erano deserti, o quasi.

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