Capitolo II - Incontri notturni

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La notte giunse.

Umida e odorosa, come vecchia colonia aspersa su un collo rugoso, ma ben rasato.

Me ne riempii le nari e provai un così forte piacere da sentirmene quasi schiavo e avido e bramoso.

Ero rimasto così lungamente disperso in quella stanza, da non ricordare il mio ingresso consapevole in quella dimensione.

Ero andato lì per morire , questo lo rammentavo bene e d'altronde come avrei potuto dimenticarmene?

Ero il più incallito tentatore di suicidi.

Ho attentato alla mia vita così tante volte, da chiedermi se alla fine non ci sia riuscito e questa non fosse altro che una paradossale punizione per il mio deplorevole comportamento.

Ma come sarebbe potuto essere?

Ero vampiro da troppo tempo per illudermi di essere morto e di non essermene accorto!

E come per esorcizzare questo mio momentaneo smarrimento, ripresi a respirare ed inspirare.

Dentro e fuori.

Vivo e morto.

Mi baloccavo con queste mie psicosi da morto vivente, quando l'aria mutò il suo odore.

Di colpo perse la sua salmastra untuosità e smise di blandire i miei polmoni con la sua vezzosa umidità gravida; una nota che sapeva di muffa e vecchie cantine dimenticate si era insinuata tra le sue spirali.

Era il puzzo di pizzi marci e ingialliti.

Era il lezzo di una bocca assassina.

Era l'odore di un vecchio dentro.

Abbandonai rapidamente il viale illuminato dai lampioni infestati da nugoli di svolazzanti insetti impazziti e scartai verso una buia stradina che si apriva su un fianco della strada.

Un gattaccio con un occhio cieco si sorprese nel vedermi apparire e si fece grosso e minaccioso, ma si dileguò lesto come un sorcio quando gli soffiai di rimando trai miei denti aguzzi e spaventosi.

Mi abbarbicai contro il freddo e viscido muro di pietra e spinsi il mio sguardo in avanscoperta.

C'era un folle silenzio nell'aria e tutto era immobile, ogni cosa sembrava aver cessato di colpo di vivere ed ogni essere, anche il più minuzioso, sembrava trattenere il fiato sperando di non essere scorto.

Una macchia nera guizzava da un albero ritorto all'altro.

Fendeva con quegli occhi giallo-acquoso da felino ammalato il terreno di caccia che lo circondava.

L'aria mi trasportava il suo odore e in quello c'era traccia di terra smossa.

Quando si arrestava abbracciando un tronco per annusare l'aria, potevo cogliere i tratti del suo viso.

Era stravolto e le labbra erano arricciate a snudare denti grossi e spezzati. Forse la fame lo aveva indotto ad azzannare fino alle ossa e i suoi canini ancora troppo fragili ne erano stati sfigurati.

Vedete, quando si diventa vampiri non è che tutto muti all'istante.

Bisogna lasciare che il cambiamento lavori al suo giusto ritmo. Bisogna lasciare macerare dentro di se il sangue del proprio creatore affinché questo possa insinuarsi in ogni anfratto e solidificare.

Per questo capita sovente che dei novizi presi dalla smania inconsulta di provare i nuovi se stessi, si lancino in prove idiote e dementi che li portano fin anche alla morte.

Ora... il losco vampiro dai denti sfigurati era un potenziale problema.

Perché?

Diamine! Perché una miserevole creatura come quella bada solo a nutrirsi.

Ha fame. Ha sete. Non c'è una gran differenza.

E quando la ragione abbandona un corpo ciò che resta è solo istinto, una serie di brevi ma atavici impulsi primari e tutto ciò che conta è solo la sopravvivenza e quello lì ne era l'esempio lampante.


I vecchi dentro - ConcorsoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora