Capitolo 10

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"È questo che vuoi, Mia?", chiede seguendomi.
E in questo momento mi accorgo di non sapere davvero cosa voglio. Mi intriga, mi affascina e mi esaspera, ma soprattutto nemmeno io riesco a stargli lontana. Non penso sia solo attrazione fisica. C'è un trasporto più profondo tra noi che mi spaventa a morte. Non riesco a credere che questo ragazzo si sia fatto strada dentro di me, sotto la mia pelle e in mezzo alle mie emozioni impolverate, in così poco tempo.
"Questo cosa?"
"Una storiella esiva con il ragazzo più grande."
"No, non è questo che voglio", rispondo guardandolo, pregando che capisca.
"Allora credo di non poterti dare nulla."
Mi lascia sulla soglia di casa con le lacrime che scendono copiose sulle mie guance, bagnando la mia canottiera.
Mi sciacquo la faccia e mi guardo allo specchio prestando attenzione ai miei occhi rossi. Mamma e Sofi non sono ancora rientrate ed io raggiungo Sammy nel letto, spengo il telefono e spero di addormentarmi presto.
Mi sembrano passate ore ma i miei occhi sono sempre fissi sul soffitto, le mie orecchie aspettano di sentire la serratura della porta scattare e il mio cuore, inerme, non riesce a smettere di provare dolore dopo i colpi subiti.
Raggiungo il faro poco lontano dagli scogli, ricordandomi di portare con me il telefono, camminando lungo una stradina disfatta. Comincio a salire la scalinata a chioccia fatta di cemento che lo avvolge e, finalmente, mi ritrovo in cima, accanto ad una luce potente che mi brucia gli occhi.
"Perdonami."
Lo sento avvicinarsi sempre di più e nel frattempo prego che se ne vada o forse che resti e che non mi faccia ancora del male come tutti gli altri.
"Non volevo ferirti."
Ma lo hai fatto, penso.
"Te l'ho detto, non riesco a starti lontano."
Ma riesci a starmi abbastanza lontano, Alex.
"Prima di concederti a me, al ragazzo più grande che ti desidera dal primo momento, devi sapere molte cose. Cose che ti faranno cambiare idea su di me, cose che se scoprirai da sola ti porteranno ad odiarmi."
Odiarlo. Come potrei odiarlo?
Camminiamo lentamente, tenendoci per mano.
"Dove stiamo andando?", chiedo.
"Non lo so, Mia."
Non saprei dire da quanto tempo stiamo camminando, saranno passati minuti o forse ore, ma il cartello indica che siamo alla fine del lido. Dopo avermi detto di non sapere dove andare, Alex è rimasto in silenzio. Qualche volta mi guarda ed io fingo di non accorgermene. Altre volte mi stringe la mano, forse per constatare che sono ancora qui, accanto a lui.
Percorriamo la stretta stradina in salita che permette di raggiungere la sporgenza più alta della scogliera e che, ad ogni passo, è sempre più faticosa. Ci fermiamo entrambi con il fiatone guardando il mare che si fonde con il cielo formando uno sfondo blu scuro, quasi nero. Alex mi copre gli occhi con le sue mani grandi. "Adesso girati lentamente."
Ogni passetto che faccio è un invito a fidarmi di lui.
Apro gli occhi e non riesco a credere a ciò che essi stanno guardando. Mi giro più volte, osservando attentamente entrambi gli spettacoli che posso godermi facendo un piccolo movimento.
"Quella", mi dice indicando davanti a noi, "è Rodi. In sé per sé quel paesino non è niente di che. Le case sono vecchie, le strade rovinate, ci sono migliaia di scalini, le indicazioni non sono precise e di interessante non c'è nulla da vedere. Ma da qui, Mia, è tutta un'altra cosa." Accuratamente, mi spiega cosa c'è sotto ogni luce.
"Quelle gialle sono poste solo in cima alle case e ai condomini, quella bianca si trova sulla punta del campanile..." E mentre lui parla, io mi godo lo splendido arcobaleno artificiale che ho davanti.
"È bellissimo, Alex."
Lui si gira dall'altra parte e si siede sul bordo della sporgenza, lasciando le gambe, dal ginocchio in giù, a penzoloni.
"È pericoloso, vieni un po' più indietro", dico toccandogli la spalla.
"Non è pericoloso finché sto attento."
Alza la testa nella mia direzione, incontrando i miei occhi e credo di aver capito perché mi ha portata priprio qui.
"Allora staremo attenti", rispondo seriamente sedendomi accanto a lui e copiando la sua posizione. Le nostre mani quasi si sfiorano.
"Quando avevo otto anni ero un bambino felice. Avevo una bellissima casa, una famiglia che mi voleva bene e anche un sacco di amici con cui giocare. Mi sentivo come un principino, ovviamente fortunato. Mia sorella Amanda aveva quattordici anni e ogni sera, prima di chiudere gli occhi, mi diceva di darmi una svegliata. Se non me lo diceva era perché si trovava fuori casa. Io non le rispondevo nemmeno, per molto tempo ho continuato a pensare che fosse invidiosa di me." Non mi guarda mentre parla, fissa un punto davanti a sé. "Avevo dieci anni quando, una mattina, avendo la febbre non sono andato a scuola. La mamma, come sempre, mi aveva preparato la colazione e subito dopo è uscita di casa. Stavo guardando la TV ma sentivo dei rumori in sottofondo, così ho abbassato il volume e sono arrivato fino alla camera da letto dei miei genitori. Quel giorno ho scoperto che mio padre tradiva la mia mamma. Proprio nel suo letto cazzo! Lei si faceva in quattro per mantenere la sua famiglia lavorando dodici ore al giorno e soprattutto per mantenere il suo caro maritino disoccupato e traditore!" Sono in bilico sulle sue parole, più che su questa scogliera. Non riesco nemmeno a pensare a ciò che abbia potuto provare perché Alex continua a parlare, veloce come un treno. "Ogni fottutissimo giorno in cui rimanevo a casa da scuola lo trovavo lì, tra le lenzuola, con una diversa. Finché un giorno di due anni dopo la mamma è tornata un paio d'ore prima da lavoro. Era il mese di settembre ed io giocavo in cortile con Aaron, il nostro cane. Ho sentito delle urla e subito dopo ho visto la mamma correre fuori casa e mio padre seguirla in mutande. Lo ha riempito di insulti e ogni giorno che passa penso che non gliene abbia rifilati abbastanza. Lei era a conoscenza della sua infedeltà ma non pensava potesse arrivare a tanto, portando le sue puttane sotto il nostro tetto. Fuori di sé, prese la macchina ed io non la rividi mai più. La sera arrivarono a casa i poliziotti e ci dissero che mia madre aveva avuto un incidente e che purtroppo non era sopravvissuta. Andava troppo veloce e aveva perso il controllo dell'auto. E da lì ho capito cosa voleva dirmi Amanda."
"Mi dispiace tanto, Alex", dico abbracciandolo.
"Non è finita, Mia, questo è solo l'inizio. Questo non c'entra niente con noi. Se adesso ti dispiace per me, tra poco non vorrai più vedermi."
Inizia a spaventarmi e una parte di me non vorrebbe ascoltare ciò che ha da dirmi.
"Mia, io non riesco a capire perché voglio dirti tutto questo. Non ho mai aperto bocca nemmeno con quei fottutti strizzacervelli! Ma so che di te posso fidarmi e non te ne farò una colpa se poi te ne andrai", dice prendendomi il viso tra le mani. E adesso mi rendo conto che non posso promettergli di restare prima di aver ascoltato fino alla fine.
"A quindici anni ho iniziato a bere e fumare. Ogni tanto ci scappava qualche rissa, ma niente di serio. Ero tornato a casa, non ero in me, e mio padre stava salutando una delle sue schifosissime amiche, come le chiamava lui. Quella è stata la prima sera in cui l'ho picchiato. Non riuscivo a fermarmi. E più lo picchiavo, più desideravo che provasse dolore", spiega stringendo i pugni. "L'ho picchiato spesso nel giro di un anno, sperando che mi facesse sentire meglio. Ma niente, non provavo niente! Stavo per compiere diciotto anni e in quel periodo ero più fuori di testa che mai. L'ho seguito. Stava comprando un mazzo di rose bianche, le preferite della mamma, e subito dopo si è incamminato per raggiungere una delle tante. Era la prima volta che lo vedevo compiere un gesto del genere, di affetto forse. Hanno passato la giornata a passeggio, mano nella mano, e quando si sono diretti verso il cinema io non ci ho visto più. La mia mamma amava il cinema. Eravamo soli in una piccola via del centro e li ho colti alla sprovvista. Ho tirato un pugno a mio padre che si è accasciato a terra e negli occhi di quella donna vedevo la paura. L'ho spogliata e lei continuava a piangere e tremare. Volevo sfogarmi e in quella fase della mia vita l'unico modo gratificante era il sesso. Vedevo dall'espressione di mio padre quanto fosse distrutto. Teneva davvero a quella donna. Ma perché non ha voluto bene anche a mia madre? L'ho costretta ad inginocchiarsi davanti a me, ti lascio immaginare cosa le ho chiesto di fare e cosa è successo dopo, davanti a mio padre, paralizzato dalla disperazione. Ho umiliato quella donna, proprio come mio padre ha umiliato mia madre! Ma a distanza di tempo ho capito che non era con lei che dovevo prenderemela. Da quella sera persino io avevo paura di ciò che potessi fare. Per un po' di tempo non mi sono più avvicinato ad alcuna donna, dopodiché ho avuto solo notti senza importanza. Non c'è un solo giorno in cui io non pensi a quella donna e mi maledico per averle fatto dal male. Milano non era più la mia casa, così ho preso tutte le mie cose e me ne sono andato. Il treno mi ha portato in questa meravigliosa regione...", termina girandosi verso di me.
Non riesco a credere a quello che le mie orecchie hanno appena ascoltato. Sento le sue parole rimbombare nella mia testa e mentre cerco di capire Alex, la sua sofferenza e i suoi evidenti problemi, non riesco a non mettermi nei panni di quella donna innocente. Ho provato sulla mia pelle l'umiliazione e l'ingiustizia e non mi capacito di come Alex, il ragazzo che mi ha salvata, sia stato capace di arrivare a tanto. Era solo un ragazzo ferito e arrabbiato ma niente, nemmeno la morte di tua madre, può giustificare un'azione del genere. Mi ostino a chiamarlo ragazzo ma in realtà è un uomo che non dimostra la sua età e mi ritrovo a fissarlo, incredula.
"Dì qualcosa, ti prego."
Incapace di spiaccicare parola, indietreggio pur rimanendo seduta. Appena riesco ad alzarmi in piedi, Alex copia il mio gesto e allungo le mani verso di lui per non fargli capire di non avvicinarsi.
Le persone compiono atrocità tutti i giorni e sicuramente arrivano a fare cose peggiori di ciò che ha fatto Alex. Lo sto giustificando per via del dolore che si portava dentro e che in fondo in fondo gli appartiene ancora. Ma quella donna non meritava di essere messa in mezzo alla sua vendetta contro il padre. E i miei ricordi ritornano ricordandomi perché la compassione che provo per quella donna è più grande della voglia che ho di abbracciare Alex e consolarlo per la perdita di sua madre, promettendogli di aiutarlo.
La suoneria del mio telefono mi risveglia facendomi sussultare. Lo lascio squillare mentre scendo velocemente da questa scogliera. Alex mi prega di fermarmi, di dire qualcosa e di non lasciarlo solo adesso che finalmente mi ha trovato.
"Adesso che mi hai trovato?", chiedo girandomi verso di lui, non capendo le sue parole.
"Sì. Tu le assomigli tanto...", dice con aria sognante.
"Non capisco, Alex."
Gli costa fatica questa confessione e me ne accorgo nel momento in cui apre la bocca per parlare e subito dopo la richiude, scuotendo la testa.
Chi sono io per giudicarlo? Ha sbagliato ed è pentito, e nel caso non lo sia ha tutto il tempo per pentirsi. E magari per chiedere scusa.
"Spiegati Alex, spiegami tutto. Prometto che non me ne andrò", dico sicura di riuscire a mantenere la mia promessa.

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