Capitolo 2 - Conseguenze

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Appena varcata la soglia, il tipo mi spinge contro un tavolo, la presa sulle mie braccia più salda che mai.
Piegato un quel modo, con la guancia schiacciata contro il legno, la prima cosa che vedo è la canna di una pistola a qualche centimetro dal mio visto.
Poco rassicurante.
La seconda, una custodia di cuoio un po’ logoro in cui riluce il metallo di un distintivo.
Ma che…?
Incredulo, tento di voltarmi verso lo sconosciuto alle mie spalle, e solo allora lui mi lascia andare: con la massima calma si va a sedere dalla parte opposta del tavolo.
La stanzetta è così piccola da non poter contenere altro, a parte un paio di sedie e un lampadario dalla luce metallica. E ovviamente lui: viso scarno, barba di qualche giorno, un paio di occhi scuri e scontrosi. Una piccola cicatrice lungo la mandibola.
“Agente Gray” mi fa, posando appena la mano sul distintivo. Poi alza gli occhi su di me, che ancora non oso muovermi. “Beh, Cristo, stai così comodo piegato in quel modo? Siediti, su. E smettila di tremare come un coniglietto”. Il mio sguardo va involontariamente all’arma sul tavolino. Inarco un sopracciglio.
“Ah, quella” Sorride, e la cicatrice fa da eco alle labbra “Potrei anche metterla via, ma non cambierebbe molto, sai. Avrei lo stesso il tempo di ficcare una pallottola in mezzo ai tuoi occhioni blu prima che tu possa sbattere le ciglia, principessa”.
A questa minaccia pronunciata con espressione serafica, deglutisco e mi siedo.
“Oh. Bene. E ora, da bravo, vedi il tuo drink, scalda il cuore e scioglie la lingua”.
Ma certo, perfetto, ora mi vuole anche ubriacare.
Una parte di me dice che no, dovrei restare lucido.
L’altra mi dice che la mia lucidità è andata a farsi fottere da un bel pezzo.
Afferro il bicchiere e me lo scolo tutto d’un fiato.
E mentre il liquido brucia nella gola, lampi di ricordi mi annebbiano la vista.
Un tonfo sordo nell’oscurità, un rantolo soffocato.
Uno sguardo fisso su di me che implora aiuto.
Quello stesso sguardo che si spegne lentamente…
Cristo, cristo, cristo.
Strizzo gli occhi per spegnere quei flash, ma riesco solo a trattenere qualche lacrima. E procrastinare una probabile crisi di nervi.
Il bicchiere torna sul tavolo, e Dio, quanto vorrei che fosse di nuovo pieno.
Qualunque cosa, pur di non pensare.
Ma evidentemente per l’agente Gray mi sono concesso fin troppo tempo. “Allora” mi fa infatti, appoggiando i gomiti sul tavolo “Cosa ci faceva un signorino come te, in un posto come questo?”.
“Io…” deglutisco ancora, le tempie mi pulsano come se l’orrore volesse farsi strada attraverso la mia pelle “Facevo delle foto. Per hobby”.
Gray inarca un sopracciglio.
Sì, ora sembra un’idea cretina anche a me.
E invece, la domanda dell’agente è un’altra. “Posso chiederti, allora, dov’è la tua macchina fotografica?”.
La mia…?
Batto le palpebre. La mia macchina fotografica! Mi tasto il petto, come a constatare che la tracolla non c’è più.
“Io… mi dev’essere caduta” rispondo con un filo di voce “Mentre scappavo”.
Un lampo attraversa gli occhi scuri di Gray, e in quell’istante capisco che lui sa. Sa quello che ho visto, sa da cosa sono scappato. Non so come diavolo faccia, ma lo sa.
Scatta in piedi, sbattendo le mani sul tavolo. “Mi stai dicendo che l’hai lasciata lì?” ruggisce, col fuoco negli occhi.
Mi faccio più piccolo sulla sedia. “Io non… è… è un problema?”
L’agente alza la mano, e per un istante penso mi voglia picchiare. Invece scende ad afferrare la pistola.
“Oh sì, pezzo di idiota” risponde, andando verso la porta “Un grosso problema. Per te e per chiunque altro compaia in quelle foto”.
E io resto immobile, ma immobile dentro. Non c’è più un singolo nervo che mandi impulsi, una goccia di sangue che scorra nelle vene. Perfino le gocce di sudore sulle tempie si fermano.
Solo silenzio, mentre l’enormità del possibile mi assale.
E nel silenzio, squilla il cellulare.
C’è il suo nome, sul display.
La sua foto che mi sorride.
E la sua voce scioccata che balbetta in lacrime il mio nome. “C-colin?” 

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