Capitolo 8 - La morte di Colin Parks

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Non so quanto tempo sia passato.
L’uomo se n’è andato, soddisfatto.
Ci siamo solo io e Rachel.
I suoi occhi pieni di lacrime.
I miei, anche.
Ci vogliono tutte le mie energie, ma alla fine riesco a parlare.
“Chi…chi era?”
Rachel chiude le palpebre sugli occhi nocciola, la mano affonda nelle onde dei capelli biondo scuro.
“Un cliente.”
Sento la mia espressione cambiare. Cliente.
Rachel è…?
“Già” è la sua risposta alla mia tacita domanda, densa di amarezza e anche di sfida. Problemi?
Ci guardiamo ancora per un po’, e sono io a distogliere per primo lo sguardo.
“Rachel, ascoltami. Io non devo per forza usare queste foto. Non devo per forza consegnarle a loro”.
Lei ha gli occhi sgranati di terrore. La sua risposta è un soffio. “Oh sì che devi. Altrimenti sarà stato tutto inutile. Altrimenti ci uccideranno”.
Sento la tensione risalire al cervello. “Ma lo faranno in ogni caso, dannazione! Ascolta, io…io ho una prova. Con quella ci dovranno ascoltare”
Lei mi guarda interrogativa.
Esito un po’, mi rigiro la macchinetta tra le mani, poi confesso.
“Una foto del nostro aguzzino che sorride di fronte a un cadavere”.

E così, succede.
Il dubbio.
Lo vedo insinuarsi nel suo sguardo incrinando il muro di paura.
Ora o mai più.
“Allora, sei con me?”
Lei esita, respira a malapena, si mordicchia un’unghia, ficca le mani in tasca, muove qualche passo. Ogni sua fibra esprime il bivio interiore che la divora.
E poi sospira, come se in quell’aria riversasse tutti i suoi pensieri.
Tranne qualcuno, che ancora alberga nel buio delle sue pupille.
“Mi dispiace”.
Due parole, un mondo.
Rifiuto.
Mortificazione.
Senso di colpa…
“Grazie, bambola. Le ribellioni vanno sempre stroncate sul nascere”.
La voce di Jake.
Mi paralizzo.
No…
Non riesco a respirare.
La guardo, lei guarda a terra.
“Mi dispiace”, ancora.
Resta lì, immobile, in lacrime, mentre Jake mi porta via.
Sai una cosa, Rachel?
Non ti dispiace abbastanza.

Un vicolo, lontano da tutto e da tutti.
Nessun lampione.
Anche la luna sembra voltarsi dall’altra parte.
Ho ventun anni.
Sto per morire.

Sento le voci di Jake e Gray, alle mie spalle.
Mi hanno legato polsi e caviglie, inginocchiato contro un muro.
Pochi centimetri di cemento sporco.
L’ultima cosa che vedrò.

“Senti, amico, io non ce la faccio”.
Jake.
Dio, grazie.
“Che c’è, ti tiri indietro?”
“No, no. Va eliminato, lo so. Ma…che ti dico, ci ho vissuto accanto per due anni. Uccidiamolo pure, ma…non farlo fare a me, ecco”.
Il sangue pulsa forte contro i lacci, nelle vene dei polsi.
Silenzio.
Poi Gray cede. “E va bene, ci penso io. Tu torna alla base”.
“Grazie amico, ti devo un favore. E…” si avvicina, mi posa una mano sulla spalla “addio, Colin”.
Se ne va.
La mia unica speranza se ne va.

I suoi passi si perdono nell’aria fredda di questa dannata, infinita notte, l’ultima della mia vita.
Ecco, non se ne sente più neanche l’eco.
Gray si avvicina.
La sua pistola sulla nuca.
“Dannazione, ragazzo, ma che diavolo ti è saltato in mente?”
Si china accanto a me e mi slega.

Co…cosa…?
Non ho il coraggio di voltarmi.
“Stava andando tutto così bene, cazzo. Tutto al suo posto. Ma no, tu dovevi fare l’eroe. E ora sei vivo per puro caso, devi ringraziare il buon cuore – o forse la viltà – del tuo amico”.
Non capisco più nulla.
Lentamente, mi volto.
“Sì, hai capito bene. Sono un vero agente di polizia, infiltrato con successo nel piano di quei pazzi…e tu, signorina, hai rischiato di mandare tutto a puttane”.

Lo guardo, in silenzio.
Troppe bugie.
Troppi doppi giochi.
“Come posso crederti?”
“Non puoi”.
“Io vi denuncio tutti. Riempirò quel sotterraneo di poliziotti veri”.
Mi guarda con commiserazione. In un gesto stranamente affettuoso, mi posa una mano sulla spalla.
“Colin, no. Non puoi. Perché vedi…”
Prende fiato.
“Tu sei morto”.
“Che cazzo dici?”
Il suo sguardo è ancora più triste.
“Tu… ognuno di voi, stanotte, ha assistito al proprio omicidio. Famiglie e istituzioni sono già state avvisate”

“Colin Parks non esiste più”

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