5. Onice

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ONICE - Onice in greco significa unghia e proprio da esse prende il nome, dato che questa pietra è appunto lucida come un unghia. L'onice è considerata in oriente come la pietra simbolo del Tao e, per la cristalloterapia, è adatto a migliorare la concentrazione, e ad essere meno influenzabili, realisti e responsabili. Si ritiene che sia utile per tutti i problemi all'orecchio.

Una luce puntata sull'occhio destro mi bruciava le cornee e vedevo i nervi interni del bulbo oculare. Sbattevo le palpebre appena decideva di spostare la lucina da una parte all'altra.
«Ora guarda in alto. Di lato. In basso a destra» ordinò l'infermiera, che non mi sembrava vecchia come aveva ammesso Sam. Al contrario, era giovane, snella, con lunghi capelli biondi arricciati, due mani curate e un fare abbastanza fastidioso. Forse avrei dovuto ascoltare il biondo a riguardo. Cominciai a pensare a tutto quello che fino a quel momento avevo vissuto, provato sulla mia pelle. Avevo quella strana sensazione di essere nel bel mezzo di un sogno: uno di quelli di cui non sai mai che succeda alla fine o che non hai idea di come uscirne il più presto possibile. La mia testa ciondolava tra le mani dell'infermiera, che cercava di farmi stare ferma in qualche modo.
Quando mi ordinava di guardare in un punto preciso, io spostavo lo sguardo dalla parte opposta e quando finalmente capì che doveva seguire il mio giochetto e cominciò ad applicarlo, ripresi a mettere in pratica le sue informazioni.
«Mi farai impazzire prima o poi» ammise, accennando un sorrisetto di intesa.
La osservai con uno sguardo vuoto e non potevo pensare ad altro che a quel ragazzo che avevo visto nel corridoio qualche ora prima. Aveva delle spalle talmente larghe da essere il doppio di quelle del suo amichetto rossiccio.
Mentre la dottoressa metteva a posto dei fogli rimasi seduta e cominciai a canticchiare una vecchia canzoncina.
«An' I need you now tonight, and I need you more than ever. And if you only hold me tight, we will be holding on forever..» era un pezzo un po' sdolcinato, ma mi piaceva sentirlo ogni sera, prima di andare a dormire, solo per rilassarmi un po' e consolarmi con il fatto che qualcuno come me, sulla Terra, in quel preciso momento, era solo con se stesso.
L'infermiera ritornò davanti a me e riprese la maledetta penna.
Mentre mi passava la luce un'altra volta, mi appoggiò senza preavviso una mano sulla coscia. Fu in quel momento che mi accorsi che eravamo sedute su due sgabelli molto vicini e che avevo sfiorato più di una volta le sue ginocchia con le mie, ma non mi ero minimamente spostata. Appoggiando la mano si approfittò del fatto che non avessi mosso muscolo per salire verso la parte alta del femore. Mi irrigidii improvvisamente e lasciai passare qualche secondo, per capire se l'avesse fatto senza pensarci o se fosse tutto programmato.
«Quanti anni hai, cara?» mi chiese con voce calda. A quel punto mi accorsi della situazione sconcertante e che avevo la possibilità di parlare per troncare al momento il fraintendimento.
«Meno dei tuoi di sicuro» cercai di risultare fredda e distaccata, ma lei, al contrario, mi fece un sorrisetto, come se avesse capito che stavo in un qualche modo flirtando con lei. Quello che avevo detto a Sam era pura bugia, la potevo chiamare bugia bianca. Per il momento provavo attrazione solo per l'altro sesso e niente di più che amicizia verso le ragazze.
«Come ti chiami?» mi chiese prendendo una cartellina e decidendosi, finalmente, di staccare la sua mano che era arrivata ad punto quasi vicino all'inguine, vedendomi aprire in modo esorbitante gli occhi.
«Rosalie Bearly» risposi cercando di far stare ferme le gambe, che stavano tremando sia per lo spavento che per la sensazione sconosciuta.
Sentivo caldo, dappertutto.
"Rosalie calmati" questa volta mi fece coraggio quella vocina costante nella parte destra del cranio e funzionò, perché improvvisamente smisero di far rimbalzare lo sgabello da una parte all'altra.
"Da quanto..." ammisi poco dopo, realizzando che non avevamo avuto una conversazione per un giorno intero ed era stato davvero un altro (e buon) modo di sperimentare la giornata.
"Sì. Direi che ora sono d'accordo con il fatto che tu debba stare lontana da quel ragazzino" immaginai per un secondo il suo volto, cercando di capire se lo avesse detto con sincerità e se si riferisse a Sam.
"Che hai contro di lui?" chiesi, notando che la mia conversazione mentale mi aveva paralizzata da quella terrestre e che questo mi faceva sentire più leggera e senza pensieri.
"Io sono bl..." riuscii solo a sentire quel pezzo di frase, prima che entrasse la prof di letteratura, con ancora quell'espressione di superiorità, ma che racchiudeva anche un po' di preoccupazione: fare una denuncia era qualcosa di veramente serio per quella scuola.
«Ci sono delle buone?» chiese, guardando solo l'infermiera, senza salutare né me né la dottoressa. Non mi rivolse uno sguardo per tutto il tempo in cui discusse con la ragazza. Rimasi ferma sullo sgabello, cercando di capire che stessero dicendo a così bassa voce.
«Non c'è nessun trauma cranico. Secondo le mie analisi deve aver preso una botta da svenimento, quindi molto più forte ed è stato impossibile per lei muoversi per qualche ora. Non sono ancora del tutto sicura di ciò, ma dovrà farla venire più spesso per controllare eventuali trascorsi che potrebbero influenzare la sua salute» con atteggiamento professionale fece vedere la mia lastra e i suoi appunti su un piccolo foglio.
«Sta bene?» chiese con fare gelato, ma vedevo nei suoi occhi la paura di essere stata troppo dura, forse. Non riuscivo a identificare quella donna: sapeva mascherare le sue emozioni meglio di quanto facessi io, ed ero considerata un burattino da mia madre per questo. Di sicuro avrei imparato da lei.
«Per il momento ecco... Sì» rispose posando gli occhi sui miei, ma io ritrassi subito lo sguardo, disgustata.
Da dietro la porta scorsi una persona, ma non ero sicura se fosse un uomo o una donna.
«Posso portarla via?» chiese la voce dalla soglia della porta, che rimase buia. Era una ragazza.
«Sì» rispose l'infermiera, precedendo la prof, che si sentì un poco offesa da quella presa di potere da parte di una semplice dottoressa della scuola.
Mi alzai automaticamente, andando verso la voce. Questa mi prese il braccio e mi portò fuori, ma lo fece dolcemente. Quella presa cercai, per non impazzire, di immaginarmela da parte di un ragazzo: sarebbe stata più piacevole.
«Va meglio?» chiese. Marika. Non mi pietrificai davvero, ma probabilmente il mio cervello rimase inagibile per qualche secondo. Che cosa voleva? Dopo avermi umiliata davanti a tutte, perchè mostrava un minimo interesse per me? Avevo capito che non le andavo a genio perché ero sembrata una pazza il primo giorno di scuola, ma non ero stata così male nel presentarmi per ricevere un simile atteggiamento nei miei confronti. Con una mano le tolsi il polso dal mio braccio e ricominciai a respirare con costanza. Avevo intenzione di non rispondere alla domanda, ma la coscienza mi incitò a essere carina e disponibile, cosa che mi mancava ovviamente.
"Devi, smettila di fare la bipolare" Aveva ragione.
«Non male, tu?» chiesi stringendo un poco la mandibola, per poi ritornare rilassata, poiché mi ero liberata di un peso troppo grande.
«Tutto bene ora che abbiamo chiarito» rispose con fare altezzoso, il che mi diede un poco fastidio, ma lasciai perdere e continuai a camminare per il corridoio, che era stranamente buio ed erano accese solo le luci anti incendio e quelle che indicavano la porta di servizio.
«Che sta succedendo?» chiesi curiosa, abbastanza preoccupata del fatto che non riuscivo a riconoscere nulla lì e mi dovetti attaccare al braccio di Marika. Sentii un piccolo sbuffo da parte sua, che però era simile ad una risata nascosta. E la pazza sarei dovuta essere io.
«Verso le sei è saltata la luce, siamo in riserva quindi non accendere la tua della stanza» mi ordinò. A quel punto mi accorsi che non aveva preso a parlare e che probabilmente si stava trattenendo perché Sam le aveva parlato di come avevo ammesso che era noioso starla a sentire tutto il tempo.
Scendemmo lungo le scale ed arrivammo al piano in cui avrei dovuto avere la stanza.
«Sai una cosa? Perché non stai con me, Diana e Jane? Così non rimani sola al buoio» lei non mi poteva vedere, ma sgranai gli occhi. Non ero felice né offesa, ma strabiliata dalla sua proposta.
«Accetto» dissi chiudendo immediatamente la bocca, dopo aver pronunciato con timidezza la parola, come se fosse proibita, mai pronunciata.
«Allora torniamo su» decise e mi sentii tirare il braccio destro, che mi aveva afferrato dopo che avevo mollato la presa sul suo pochi minuti prima.
Sentivo solo le gambe alzarsi e distendersi per salire i gradini e il tutto divenne meccanico e ripetitivo.
«Dove siamo?» chiesi dopo qualcosa come dieci minuti. Ero davvero stanca e lo zaino mi tirava la schiena all'indietro, quando non avevo neanche la forza per rimanere dritta.
«Prima ti porto da una persona che vuole conoscerti» rispose con fare serio. Avevo letteralmente paura in quel momento. La sua voce si era fatta talmente grave che pensavo fosse un'altra persona. Il mio respiro divenne sempre più affannoso e cominciai a sudare. L'aria si era fatta più rarefatta e mano mano che salivo mi sembrava che la scala a chiocciola della scuola diventasse sempre più ampia e che portasse verso un luogo indistinto.
«Marika!» urlai, non sentivo assolutamente nulla. Le mie orecchie erano ovattate dal respiro che cercava aria, ossigeno, speranza. Prima che la chiamassi mi aveva stretto il polso fino a contorcerlo da dolore. Mi ero liberata dalla sua presa ritornando indietro di uno scalino.
Gridai a vuoto. La mia voce rimbalzò tra le pareti e i passi che pensavo sentire ancora della ragazza erano spariti, scomparsi con un tonfo finale. Da lì in poi il silenzio. Scesi le scale al contrario correndo e contando i giri della scala a chiocciola che avevo fatto. Arrivai ad un punto in cui ne avevo contati cinquantasei e la scala non si era minimamente rimpicciolita.
«Sono qui!» urlò una voce bassa, molto più bassa di quella di Marika. Ero sul punto di piangere e sentivo i movimenti a stento del mio torace che si abbassava e si alzava senza trovare abbastanza ossigeno per calmarmi. Caddi a terra con un colpo secco e appoggiai lo zaino alla mia sinistra per poi distendere la schiena su quello che mi sembrava un muro. Successivamente cominciai a pensare ad una cosa: in infermieria avevo fatto la lastra e la luce era rimasta accesa per tutto il tempo, anche se avevo impegnato delle ore a pensare ad altro non avevo notato nessuna luce lampeggiare o sentito alcun ragazzo urlare per lo spavento.
Dopo quel breve pensiero neanche un ragionamento semplice riuscivo a fare. Appoggiai la testa al muro, aprendo la bocca per cercare aria, che non arrivò.
"Stiamo morendo" fu l'unica cosa che riuscii a sentire dopo essere svenuta, ma l'unica differenza era che quel mancamento era dato da qualcosa di reale e non dentro di me. I miei pensieri cominciarono ad affievolirsi e con questo anche la visione delle scale che vedevo solo grazie alle luci rosse accese nel soffitto. Era tutto completamente sfuocato, ma riuscii a mantenere la mente in guardia, per vedere se qualcuno arrivava e cercai di respirare il meno possibile, per risparmiare quel poco di aria che rimaneva. Faceva caldo, tanto caldo. I capelli mi si appicciarono al collo e non feci altro che sdraiarmi su uno scalino, per non pensare alla testa bagnata che mi ritrovavo. Non capivo più nulla ormai e respiravo a fatica, quasi con il fiatone che si sarebbe potuto sentire da lontano. Perchè ero sola? Tutti gli altri? Dove erano finiti?
Spostai la guancia accaladata sulla parte fresca marmorea dello scalino, per far raffreddare il bollore.
Decisi di non farmi più domande e mi accucciai in fondo allo scalino, che era grande poco meno di un metro.
Non mi chiesi neanche come mai avessi tutto quello spazio per muovermi.
«Ehi» sentii qualcuno salire le scale, ma ormai non avrei saputo neanche ricordare e, ancora peggio, pronunciare il mio nome. Quell'Ehi mi si avvicinò e mi prese per la testa, che pesante per la stanchezza e deficienza ciondolò un poco sulle sue mani, prima di raddrizzarmela e così puntare il suo sguardo sul mio. Azzurro. Acquamarina. Vedevo il colore delle onde mattutine marine e quasi sorrisi per la sensazione di quiete che mi diede quel colore. La sua mano profumava di un muschio o qualcosa di fresco e mi svegliai un po' grazie alla sua presa. Cercai di aggrapparmi a quel pensiero, ma durò poco perchè caddi e il mio corpo scivolò per scale e scalini.

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