8. Ematite

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EMATITE - L'ematite era conosciuta e molto apprezzata nell'antico Egitto, dove era impiegata per stimolare la produzione del sangue ed accelerarne la coagulazione. Allo stesso modo venne poi utilizzata anche nel Medioevo ed è per questo che il suo nome significa letteralmente "pietra del sangue" . In cristalloterapia l'ematite è consigliata agli anemici, sul piano mentale l'ematite spinge l'individuo ad occuparsi del suo benessere fisico. Anticamente si riteneva che un amuleto di ematite vincesse l'eccessiva tendenza a sognare e donasse un po' di praticità.


Mi sforzavo, davvero, davvero tanto, forse anche troppo. L'avevo vista cadere a terra con le braccia che penzolavano verso l'alto, per andare poi a sbattere contro il pavimento color argento, che rendeva il tutto davvero morto, senza vita, straziante. La mia reazione al suo corpo, lì, steso, mi faceva preoccupare e allo stesso tempo impazzire.
Le sue gambe, molli, si erano scontrate l'una con l'altra e avevano provocato un rumore sordo, che chi non avesse ascoltato attentamente in quel millesimo di secondo, successivamente non avrebbe azzeccato l'origine di quella caduta.
Me le ripetevo in continuazione: quelle mani affusolate e lunghe, quei capelli cosparsi, con ciocche che andavano a toccare lievemente il colore metallo, che mantenevano i boccoli appena intrecciati. Nella mia testa mi incolpavo in continuazione e avrei tanto voluto sbattere volontariamente la fronte al muro, per punirmi. Mi ero fatta sovrastare da qualcosa che avrei potuto senza problemi controllare, ma no, mi ero dimostrata debole e senza un briciolo di immaginazione riguardante a che cosa sarebbe accaduto se l'avessi uccisa.
Quelle sei parole erano l'oggetto della mia crisi mentale, che cercavo di nascondere all'esterno, ma ancora per poco. Lui era così tranquillo e distaccato che avrei voluto scuoterlo per fargli uscire da quella bocca tutto quello che pensava. Non poteva essere così impassibile alla mia situazione.
Asciugai una lacrima che mi era scesa inaspettatamente dall'occhio sinistro, ma non riuscii a trattenere un piccolo singhiozzo, che attirò gli occhi azzurri, che davanti a me facevano finta che nulla fosse successo, che io conoscessi, che io sapessi. Ma non era così: io non capivo, non riuscivo a tradurre l'espressione indecifrabile che aveva stampata in viso.
Perché non mi parlava?
Perché mi aveva portato in montagna?
Non poteva chiamare l'ambulanza, o, meglio, non poteva lasciarmi in pace svenuta con un male lancinante al fianco per un paio d'ore? Mi sarei svegliata comunque nel bel mezzo della stanza e tutto sarebbe ritornato come prima, o, forse. Mi sarei sentita terribilmente in colpa e avrei pianto ininterrottamente sul corpo della ragazza, pensando di poterlo rianimare con il fiume di lacrime che mi avrebbero solcato le guance.
Si era messo in mezzo per quale motivo? Lui che c'entrava?
Non l'avevo nemmeno mai visto da così vicino come ora mi stava. Avevamo preso una corriera, per arrivare prima all'istituto, che invece di distare qualche chilometro, si erano rivelati più di venticinque. L'avevo convinto a prendere un mezzo di trasporto che non fossero le nostre gambe, solo con l'atto di sbuffare ogni sette passi, il che aveva funzionato, perchè sentivo la caviglia gonfia e il sangue arrivarmi troppo al cervello, per le miriadi di memorie che mi infestavano la testa. Volevo smetterla, sì, di pensare e di agire una qual volta.
Coprii il volto con una felpa che avevo indosso, che non era sicuramente di mia proprietà, ma feci smettere i continui sbalzi del mio torace, che sembravano non avere tregua.
Lui spostò gli occhi su un altro punto, per poi portarsi le mani alla bocca, come se stesse pensando sul da farsi.
Non aveva neanche provato a rivelarmi qualsiasi fatto, ma potevo considerlarlo ormai scontato, però mi aspettavo almeno che mi dicesse qualcosa di diverso per farmi calmare.
«Smettila di piangere» disse solo, mentre ancora guardava verso il finestrino del posto a quattro.
Ero seduta davanti a lui, con le gambe vicino al petto, completamente incavolata con me stessa, ma soprattutto con lui, che sembrava volersi fare gli affari suoi, invece di pensare a come avrei reagito quando avessi smesso di autocommiserarmi.
Mi misi il cappuccio e decisi di non guardarlo più, per convincerlo che non mi interessava che provasse a consolarmi, non ne avevo bisogno, avevo troppe volte detto a me stessa di stare tranquilla, anche in situazioni come quelle.
Spostai dal viso una ciocca castana e mi affrettai ad inserirla nello chignon incasinato che mi ero fatta per non far attaccare i capelli al viso bagnato.
Un'ultima lacrima uscì e mi ripromisi di non versarne più davanti a lui, perché, oltre a essere confusa, ero pure imbarazzata dalla punta dei piedi fino a quella dei capelli.
Mi tolsi il cappuccio e scorsi, mentre lo rimettevo a posto, che aveva gettato un occhio su di me, anche se fugace.
«Dove siamo?» chiesi dopo essere stata sicura che la mia voce uscisse senza risuonare graffiata o gracchiante, infatti sembrava che non avessi pianto, era come se avessi un raffreddore.
Lui non mi rispose, ma continuò ad osservare fuori dal finestrino, cercando chissà quale cosa con lo sguardo.
«Scendi» pronunciò appena la corriera segnò con un trillo l'arrivo al capolinea e mi ritrovai quasi per terra quando i freni dell'autobus sembravano essere rotti o eccessivamente spinti per raggiungere il punto prestabilito della fermata.
Mi appoggiai alla spalliera della sedia e vidi il ragazzo roteare gli occhi, per poi uscire dalle porte scorrevoli.
Davanti a me si stagliava la figura imponente della scuola e appena arrivata al cancello ebbi un pensiero, che mi ricordò di essere stata via e che probabilmente si erano accorti della mia assenza. Questa cosa, aggiunta al mio mal di testa, potevano sicuramente andare a favore della mia espulsione immediata, ma mi sentii una stupida a chiedere per quanto fossi stata via dall'istituto.
«Spostati» disse, andando avanti e superandomi, per raggiungere il cancello e posiziondandosi proprio davanti ad esso.
Mi facevano saltare i nervi quelle due o tre parole che diceva come se fossi una scocciatura.
Il modo anche con cui le pronunciava era tagliente e mi trafiggeva la sua voce, come se non fosse mai stata per me suadente, infatti quando la mattina mi aveva rivolto la parola, sembrava più aperto e meno verso un atteggiamento introverso, che aveva cercato di dimostrare da quando avevamo cominciato a camminare verso la scuola, prima di prendere la corriera.
In ogni modo non aveva sprecato le sue preziosissime corde vocali, per spiegarmi che era successo qualche giorno prima.
Lo infilzai con lo sguardo da dietro, ma lui non mi vide perché era girato di spalle, impegnato a fare qualcosa con il cancello. Sentivo solo degli sfrigolii e dei rumori di qualche secondo e per di più acuti, che mi arrivavano dritti nell'orecchio, fino a farmelo fischiare. Mi coprii un poco con le maniche della felpa le orecchie, così da attutire l'impatto con il rumore.
Quando ebbe finito e la porta si aprì con uno schiocco finale, incrociai le braccia al petto e sbuffai sonoramente, sia per la situazione che per il suo atteggiamento maleducato e criptico.
Lui si girò e guardandolo con espressione irata, non mi accorsi che mi stava tenedo la porta del cancello ferma, per farmi entrare. Fece un cenno con la testa, indicandomi l'entrata, per poi ritornare a guardare altrove e in quel momento vidi la sua mano appoggiata al freddo metallo.
Lo sorpassai un po' sorpresa dal suo gesto, ma avevo comunque catalogato la tipo di persona che avevo conosciuto. Irraggiungibile.
Dietro di me lo sentii bisbigliare, ma feci finta di non aver sentito il suo commento poco carino sul mio modo di atteggiarmi.
Di sicuro prima di giudicarmi avrebbe dovuto guardare se stesso.
«Bisbetica» lo sentii dire, ma successivamente, dopo che mi immobilizzai nel bel mezzo delle scale, si fece spazio anche un piccolo risolino da parte sua, che mi fece quasi venire voglia di schiaffeggiarlo, non importava la faccia rossa che mi sarebbe venuta o le urla che gli avrei scagliato contro.
A chi dava della lunatica? Trattenni il respiro e un possibile insulto, anzi una fila di insulti che mi si erano creati in testa.
Poi spostai la mia attenzione su altro, per mantenere la calma, ma con ancora la faccia rossa d'ira.
"Ci sei?" chiesi nella mia testa, mentre mi mantenevo ancora ferma sulle scale, con il piede che toccava lo scalino più alto.
Non aveva commentato, era strano, neanche aveva dato la sua opinione o cosa.
A quel punto mi accorsi che per tutto il tragitto non era apparsa, non si era fatta sentire.
Dov'era finita?
"Esci!" urlai facendo rimbombare la mia voce nella mente e sperando in una risposta secca, ma comunque speravo in qualcosa, che non arrivò.
Sentii un vuoto dentro.
Era vero, la odiavo, ma era comunque parte di me, non importava l'odio e l'amore che provassi verso di lei.
Avevo detto più volte di volerla strozzare o avere davanti a me, per urlarle in faccia, ma ero sempre stata abituata alla voce che occupava la mia mente.
Lui mi aveva tolto parte di me, senza chiederlo, mi aveva trattata per tutto il tragitto come un impiccio e non mi aveva rivolto parola, se non per ordinarmi di fare qualcosa o per farmi togliere dai piedi.
Appoggiai la pianta sinistra e raggiunsi la porta dell'atrio.
Rimasi per qualche secondo davanti ad essa, incerta se bussare o no, così feci molleggiare il pugno destro alzato, come una demente.
«Neanche questo sai fare» disse prendendomi il braccio, che da alzato, me lo fece piegare, per poi spostarmi a sinistra, ma con una strana delicatezza. Si fece scappare un altro risolino, che stavolta tradussi non come una presa in giro, ma come se gli fossi risultata un po' sciocca, che in quel caso, era un gran passo avanti. Mi sarei aspettata una spinta o comunque una manata, ma si limitò a farmi poggiare sul piede sinistro, così da dargli lo spazio per suonare. Lo guardai con la bocca socchiusa, ma mi si sarebbe potuto leggere in faccia che lo stavo infuocando con lo sguardo. Tenne per qualcosa come sette secondi le sue dita attorno al mio avambraccio e quando se ne accorse mi volse uno sguardo veloce e ritirò subito la mano.
Ma che voleva?
Premette un piccolo bottoncino, che si illuminò subito di rosso e cominciò a lampeggiare piano.
«Sì?» chiese una donna, non troppo giovane, con una voce tendente al dolce, ma rovinata dall'aggeggio elettronico, che la faceva sembrare meccanica e insopportabile.
«Sono io» rispose solo. Lo guardai, mentre rimaneva in piedi, in attesa di una risposta.
Lo vidi stringere i pugni quando la signora riprese a parlare.
«Christopher?» chiese la voce di nuovo e lui si limitò ad annuire, aggrottando le sopracciglia con mia sorpresa.
Christopher.
Suonava irritata la sua risposta al suo nome, come se gli avesse dato fastidio il fatto che sapessi come si chiamasse, ma probabilmente erano solo delle mie paranoie.
Mi suonarono in testa per pochi secondi quelle lettere, come una cantilena, che sembravano musica per le mie orecchie.
La porta con uno scricchiolio si aprì e intravidi da uno spiraglio che la vita a scuola era ripresa come al solito.

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