7. Zaffiro

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ZAFFIRO - Il termine zaffiro deriva dal sanscrito "sani" che sta ad indicare il pianeta saturno. Lo zaffiro infatti era considerato da varie culture europee come la pietra di saturno e rappresentava il cielo, l'amicizia e la magia. Con il termine zaffiro si vuol indicare un particolare zaffiro che è lo zaffiro blu, mentre pergli altri colori si è soliti indicarli in modo esplicito, dunque solo lo zaffiro blu può essere detto comunemente zaffiro, altrimenti bisognerà via via parlare di zaffiro arancione, giallo e cosi' via. Secondo la cristalloterapia lo zaffiro rende sobri, aumenta la capacità di discriminare e l'ordine mentale. Questo lo renderebbe particolarmente utile nei momenti di depressione o in generale di disorientamento.

«Ferma!»
Mi svegliai da un sonno che sembrava avermi preso per giorni, mesi o forse anche anni. Non aprii gli occhi, né mi mossi, come aveva detto esplicitamente la voce.
Una persona di cui non potevo riconoscere la voce stava sistemando dei pezzi di vetro, che probabilmente erano caduti a terra. Mi chiesi il motivo di tutto quel fracasso, ma poi capii.
«Se provi un'altra volta a dimenarti mentre dormi ti do un sonnifero» disse la voce con un ghigno di rabbia.
Avevo probabilmente colpito un vaso o qualsiasi aggeggio si trovava in quel luogo.
Decisi di aprire gli occhi, per vedere dove mi trovassi, ma soprattutto per sapere il motivo per cui avevo ucciso un'infermiera ed ero scampata a quella che si poteva chiamare apparizione fantasma.
Le domande mi tempestavano la mente, facendomi girare la testa, i pensieri si modellavano, ricongiungevano, si intrecciavano.
Il mondano mi prese il braccio e sentii delle piccole scosse di energia, che mi accaldarono tutto l'arto. Un ago mi trapassò una vena del polso e sentii dolore. Mi mossi leggermente per fermare quell'orribile sensazione. Lui mi strattonò il braccio, cercando di farmi stare ferma, visto che mi dimenavo sotto il suo tocco.
Mi bloccai all'improvviso, come se fossi morta. Sentivo intanto l'ago entrare più in profondità e la sostanza insinuarsi all'interno delle mie vene.
L'unica cosa positiva era che avevo capito chi mi stava drogando: un ragazzo, almeno, la voce pareva quella di un giovane o forse di un uomo.
Quando la sostanza finì lui estrasse l'ago con così tanta velocità, che sentii il mio sangue sgorgare fuori dal buco che si era formato. Quello che all'inizio poteva sembrare un sospiro di sollievo si tramutò in un gemito.
«Scusa» disse piano, mettendo a posto la siringa. Sentii sbattere qualcosa e dal rumore sembrava proprio lo schianto di un vetro che si infrangeva sul pavimento.
«Merda» esordì lui, mentre io non potevo ancora aprire gli occhi, non ci riuscivo, mi sembrava una cosa impossibile al momento. Le mie palpebre sembravano serrate, non potevano in ogni modo aprirsi, non importava quanti sforzi facessi. Mi feci sfuggire un gemito di rabbia: volevo vedere dove fossi finita e perché fossi lì, in una stanza che non emanava lo stesso profumo di papavero della mia.
Sentivo solo l'odore piacevole di legno appena tagliato.
Non era così male il clima, anche se in quel momento non potevo fare altro che pensare al mio corpo steso, senza possibilitá di movimento. Mi venne da urlare e gridare aiuto, ma chiusi la bocca prima che questo mio pensiero si potesse realmente realizzare.
Le ultime parole uscirono dalla sua bocca come se fossero coltelli taglienti. Decisi di non credere alle sue scuse.
Quando udii una porta chiudersi sentii come un sollievo e fui in grado di riprendere il controllo del mio corpo, che per molto tempo mi era mancato.
Aprii finalmente gli occhi e scorsi una stanza bianca, con un soffitto di legno. Sembrava una casa vicina a un bosco, in cui vivono i falegnami o i cacciatori, che per procurarsi il cibo vendono legno appena tagliato, fresco, oppure entrano nella foresta con un bel fucile in mano, uccidendo le povere creature che si trovano davanti.
«Mmh» disse lui, mi girai di scatto, verso la sua stra maledetta voce seducente, ma non vidi nessuno.
Posi le mani sul letto per cercare la siringa, ma non la trovai. Allungai il braccio sinistro in cui era entrato l'ago e vidi che la ferita si stava cicatrizzando sopra il polso. La toccai, per essere sicura che non fosse stata un'illusione anche quella.
Riuscii a mettermi seduta e guardarmi intorno: mi trovavo in un salotto, sdraiata su un letto ad acqua al centro della stanza. Davanti a me c'era uno specchio: intravidi la mia immagine riflessa e mi accorsi che portavo ancora i vestiti che mi ero messa il giorno in cui avevo parlato con la preside.
Cominciai a capire che per tutto quel tempo avevo solo dormito e che la mia mente si era divertita in quel lasso di ore a fare innocenti giochetti, per farmi impazzire.
Appoggiai i piedi sul pavimento e mi tirai su, scoprendo che indossavo le scarpe. Alzai gli occhi e mi guardai intorno, per prendere familiarità con il luogo. Aprii la prima porta che mi ritrovai davanti: era di legno, con un pomello dorato alla sua estrema sinistra, dentro quella stanza c'erano degli oggetti da caccia e qualche pelliccia attaccata con cura. Quando abbassai lo sguardo vidi un tappeto color rosso, che rendeva il luogo più vivo di quanto non fosse.
All'improvviso sentii un rumore provenire da una stanza oltre il salotto, così mi mossi verso il luogo in cui sembrava fosse arrivato: il balcone. In quel momento intravidi il profilo di un ragazzo, che sembrava avere più o meno la mia età, così mi avvicinai a lui, cercando di non far rumore.
Poi lo riconobbi.
Era lui, il ragazzo delle sfumature dell'anima.
Mi bloccai improvvisamente e sentii il viso prendere fuoco da un momento all'altro, non sapendo come reagire alla situazione.
La porta-finestra era aperta, così uscii piano.
«So che sei lì dietro» disse lui, voltando un po' il capo, così vidi meglio il suo viso, ma non per molto perché successivamente si girò, tornando a fissare il panorama di pini sull'altopiano e fiumi che scorrevano verso il basso. Era una normale vista di un paesaggio montano, niente di speciale; avrei potuto dire che tutto quello che stava al di fuori di me fosse normale.
La domanda giusta da porre sarebbe stata sul perché mi trovassi lì e non nell'istituto, ma rimasi in silenzio e lo seguii fino ad appoggiarmi anche io alla staccionata, che mi divideva dalla natura.
Provai un istinto irrefrenabile di girare il viso verso di lui, per vedere il suo volto, ma ero troppo spaventata dalla domanda che avrei dovuto fare: "Chi sei?".
Dopo quelli che sembrarono secoli lui mi guardò, cercando di attirare la mia attenzione, ma io invece continuai ad osservare il fiume davanti a me, come se con la coda dell'occhio non avessi scorto il suo viso completamente girato verso il mio. Se avessi voltato in quell'istante il capo, probabilmente non avrei tenuto la calma di cui ancora per poco godevo.
Capii che stava socchiudendo le labbra per pensare da dove avrebbe dovuto cominciare. Alla fine si decise:
«Ti ho iniettato un po' di morfina, per rilassare la tua coscienza. Non è piacevole averla attaccata all'anima tutto il tempo» mi voltai, risultando indifferente a quello che aveva appena detto, anche se, in teoria, sarebbe stato un colpo sapere che qualcuno conosceva il doppio io che viveva dentro di me.
«Perché parli di questo come se lo avessi provato?» chiesi, ma non avevo ancora il coraggio di guardarlo, perché le parole sarebbero svanite, non avevo delle doti da attrice quando dovevo parlare della vera me.
Inizialmente rimase sorpreso dalla mia domanda, anche se risultava come un'affermazione: gli avevo rivelato di essere pazza.
Per fortuna non disse niente, ma poi qualcosa in lui lo fece muovere velocemente verso di me e mi afferrò il braccio, per farmi voltare verso di lui.
«Non hai davvero niente da aggiungere?» mi guardò negli occhi e a quel punto vidi meglio i suoi lineamenti: erano delicati, come quelli di un bambino, però i suoi occhi dicevano tutt'altro. Quelle apatite blu lasciavano che il suo viso perdesse l'innocenza.
Rimasi a fissare i piccoli pezzi di acquamarina che mi trovavo davanti, mi colpivano come quando guardi il cielo dopo giorni di reclusione in casa. Mi davano quest'effetto: devastante.
Erano proprio quelli che avevo sognato. Non riuscivo a staccare i miei dai suoi, neanche se me lo avesse chiesto sarei stata in grado. Mi attiravano come non mai e non riuscii a controllarmi dall'avvicinarmi un po, per osserverli ancora da più vicino.
«Sembra di sì» risposi con le labbra tramanti.
Sentivo la sua presa calda sull'avambraccio. Una serie di scariche mi passarono per tutto l'arto, fino a farmi rabbrividire. Lui si accorse che ero a disagio, così fece scivolare la sua mano sul mio gomito, per poi staccarla.
Fece qualche passo lontano da me, ma in quel momento il suo sguardo si perse su un altro punto, che non ero più io: scrutava attentamente il ciondolo che portavo. Il cuore dell'oceano, così lo chiamavo. Era un cristallo blu a forma di cuore infilato in una catenina.
Era molto importante per la sottoscritta: rappresentava il groviglio di pensieri bui e soli che ondeggiavano nella mia mente la maggior parte del tempo.
«Bene» rispose, staccando gli occhi dal mio girocollo e tornò a guardarmi negli occhi. Avrei preferito che ponesse di nuovo lo sguardo sulla mia collana, perché era così difficile tenere fermo lo sguardo sul suo senza cadere svenuta per terra. Allora abbassai le pupille verso le scarpe rosse che indossavo, poco intonate con il resto dei miei vestiti.
Indugiò ancora poco su di me, prima entrare in casa, chiudendo la porta. Mi lasciò sul balcone, sola, forse era un modo per darmi tempo per pensare a cosa mi stava succedendo, perché da quanto sembrava non mi avrebbe dato più risposte.
Probabilmente non cercava di estrapolarmi domande che avrei dovuto fare sul mio soggiorno, ma la gratitudine che si aspettava per avermi liberato dalla mia coscienza.
Mi sentivo una sciocca in quel momento, ignorante di quello che sapevo.
"Mi odio" mi rimproverai. Ed era vero: non riuscivo a essere un'altra persona, figuriamoci me stessa.
Rigirai tra le dita il cuore per qualche minuto, appoggiata alla staccionata.
Sentii poco dopo la porta-finestra aprirsi e mi girai, scorgendo il ragazzo, che mi invitò ad entrare.
«Ti prendi una bronchite se non entri» disse con tono fermo e abbassò lo sguardo. Mi avvicinai al capostipite della porta, gli sussurrai un 'grazie' da vicino, per successivamente vedere gli angoli della sua bocca alzarsi piano.
Sorrisi anche io quando rientrai nello chalet, contenta di aver a mio modo calmato le acque.
Chiuse la porta dietro di me e prese una giacca che era appesa ad un attaccapanni proprio davanti al letto ad acqua, dove ero stata distesa per non so quanto.
«Dobbiamo andare» disse freddo, mentre apriva la porta, incurante del mio sguardo perplesso.
«Dove andiamo?» chiesi, mentre scendevamo per il paese. Lui cominciò a camminare velocemente, con le mani in tasca e lo sguardo rivolto verso un punto fisso davanti a lui. Non si preoccupava di avere dietro di se una degenerata come me, che cercava invano di attirare la sua attenzione. Eravamo in montagna e lui voleva portarmi a Beverly Hills? Pensavo stesse realmente scherzando e con tutta me stessa provavo a chiudere e riaprire gli occhi, strizzandoli bene e sperando che fosse davvero tutto un tremendo e lungo sogno.
«Ti riporto all'istituto» accelerò il passo per non vedere la confusione che avrebbe potuto leggermi in faccia.
Che cosa?
«Prima però mi devi spiegare che succede» ero abbastanza irritata dalla sua sfacciatezza e non facevo altro che mordermi in continuazione il labbro.
Sentii un piccolo grumo di sangue attraversarmi il palato.
Accelerai anche io il passo e arrivai al suo fianco.
«La tua coscienza ha perso il controllo l'altra notte: sei svenuta dopo che hai ucciso l'infermiera della scuola. Quando ho sentito la scarica elettrica che hai usato per attaccarla sono venuto e ti ho trovata stesa a terra» spiegò tutto con lentezza, così che non potessi trovare altre domande da fare, visto che l'istituto distava chilometri e chilometri infiniti e noi ci stavamo muovendo a una velocità che sembrava quella di un cavallo da corsa.
«In che senso sei venuto? In che modo?» gli scaraventai queste ultime parole con cattiveria, come se avesse commesso un errore imperdonabile.
«Tu non puoi capire» disse infine, rallentando il passo, con un tono che traduceva che la conversazione per lui era finita.
La spiegazione era poco valida, anzi non aveva senso, per quanto il mio ideale mi spingesse non riuscivo a trovare un filo conduttore che collegasse quel discorso in uno.

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