9. Ametista

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AMETISTA - Nota fin dai tempi antichi, di colore viola chiaro o scuro e lilla rosato, l'ametista è considerata in tutti i paesi del mondo come una pietra dal significato mistico-religioso. Era la nona pietra tra quelle che decoravano il pettorale del gran sacerdote ebraico. Per la Chiesa è simbolo di santità e umiltà. All'ametista si attribuiscono le doti di aumentare la concentrazione e le capacità di ragionamento, di vincere le cattive abitudini. E' indicata per attenuare gonfiori e reumatismi. In Oriente si pensa che, grazie a questa pietra, si acquisisca una conoscenza superiore di sè e degli altri.

«Che gli prende?» mi chiese Marika, accennando un movimento che dava l'idea che fosse stufa di qualcosa, ma non sapevo quale. Alzai gli occhi al cielo e feci di tutto per non sconcentrarmi dal mio piatto, ancora pieno.
Prese a giocare con il lembo del suo vestito, che le arrivava poco sopra il ginocchio, color mandorla, con lo scollo a V, che le donava davvero molto, per i suoi occhi natura. Era un gesto di agitazione, si vedeva, ma non diedi molta importanza a quello che faceva, mi stavo già ordinando di risultare fredda e lasciarla perdere.
Le persone false non sono fatte per me, mi dispiace.
Sarebbe potuta sembrare agli sguardi sconosciuti di una matricola un gran "bocconcino", ma era leggera e superficiale come l'aria, anche se sarebbe stato difficile starle lontana. Sarebbe stato interessante sapere come aveva creato questa personalità che le calzava a pennello, ma doveva esserci un motivo perché non volesse mostrare la vera se stessa. Decisi di smettere di pensare a Marika e ripresi a seguire la lunga serie di insensati pensieri che mi assillavano la mente. Avrei mai potuto finire di farmi un'opinione per ogni minima cosa? Forse no.
Non volli darle corda subito, visto che l'ultima vera volta che l'avevo incontrata, non mi aveva trattata come se fossi quella nuova, ma come se mi avesse voluto fuori da quella mensa e da quella scuola.
Mi aveva evitata e ora pensava di poter parlare tranquillamente.
Dove voleva andare a parare?
Non l'aveva ammesso esplicitamente, ma non so, vedevo nei suoi occhi come un disprezzo a cui non sapevo dare una spiegazione.
Non andava a genio pure a me questo suo modo di approcciarsi con le persone, ma era comunque un'adolescente e di errori se ne fanno a palate.
«Non lo so» risposi solo, continuando a guardare il mio piatto, che aveva ancora qualche pomodoro e un rapanello da finire.
Alzai un poco lo sguardo e notai la fine di una espressione disgustata, forse riguardante quello che avevo preso a mensa.
"Ma possibile che sia così infantile?" chiesi a me stessa, sperando di ricevere una risposta, che, come avevo dedotto, non arrivò.
Non ero per niente sicura di aver capito a pieno quello che Christopher mi aveva riferito riguardo la morfina, ma sentivo una sensazione di levità e di voler andare a schiacciare un pisolino, che mi davano anche la possibilità di accennare un sorriso.
Avrei voluto ringraziarlo, ma allo stesso tempo urlargli contro, anche se effettivamente non era obbligato a parlare con me del perché mi avesse aiutata, non gli avrei cavato le parole di bocca.
L'unico pensiero che mi tormentava era il come mi avesse trovata stesa a terra e quella sua affermazione riguardo la "scarica elettrica"-di cui aveva accennato mentre camminava a passo spedito in mezzo alla strada, prima di prendere la corriera e chiudere una volta per tutte la conversazione-non riscivo proprio a digerirla. Avevo notato un filo di verità in quello che diceva, ma allo stesso tempo non facevo altro che ripetermi che fosse un pazzo psicopatico, che mi aveva in un certo senso rapita e mi aveva anche violata, drogandomi con qualcosa che mi faceva davvero sentire bene, ma che avrei voluto far smettere.
Era come sentire quel momento di felicità e leggerezza, che di solito dura secondi, per più di mezz'ora, infatti percepivo quella sensazione da quando mi ero seduta al tavolo, perché prima avevo provato le furie dell'inferno pensando a quella ragazza.
Non spostai la mia attenzione a Sam, ma al ciuffo del rapanello che avevo davanti e non volevo neppure alzare gli occhi, perché sapevo avrei incrociato quelli nocciola di Marika, da cui avrei voluto ricavare tutto, ma che alla fine non sarei arrivata a trarre nulla.
Non mi sentivo per niente a mio agio con il sedere incollato su quella sedia, che ormai stava sudando con me e non potevo sopportare di avere cento domande in testa, anzi, interminabili.
Il fato, o, come lo vuoi chiamare tu, mi fece alzare poco lo sguardo ed andai a incrociare proprio degli occhi che erano ancora poco conosciuti, anzi, erano lontani come non mai, neanche la distanza Terra e Sole.
Ricordai di avere ancora indosso la sua felpa e mi velocizzai a togliermela e appoggiarla sulla sedia di fianco la mia, poggiando successivamente lo sguardo sul suo, che sembrava essere rimasto a guardarmi mentre mi spogliavo, come se fosse inchiodato a me.
Quel suo interesse mi stupì un poco, visto il suo atteggiamento burbero, ma tradussi tutto come una mia immaginazione, ma comunque continuai a guardare nei suoi occhi.
Era a due metri o più da me, però riuscivo sempre a vedere i suoi lineamenti, che mi facevano imbestialire per quanto li trovassi attraenti e da non spostare lo sguardo su un altro essere vivente.
Il naso all'insù, ma per niente tendente all'infantile, era davvero in grado di farmi tremare un poco le gambe.
Lui mi osservò, non ascoltando alcuna parola di un ragazzo rosso che sembrava parlargli a ruota dietro di se, continuando a fissare un punto preciso, quasi fosse nelle mie pupille, che sembrava non riuscisse a trovare, non importava quanto scavasse.
Lui aveva già visto troppo, sentito, perfino toccato. Socchiusi un poco le palpebre, per far passare l'odio che sembrava non aver notato, anche se, lo avrei giurato, era come se lo avessi tatuato in faccia.
Sarebbe dovuta essere una situazione imbarazzante visto che avevo provato in precedenza interesse per lui, ma sentivo solo un peso nel petto che conteneva come una palla nera d'astio, che non vedeva l'ora di uscire, per liberare il mio corpo da simili sentimenti, che proprio non riuscivo a sopportare. Probabilmente non accettavo questo suo modo di scansarmi, solo per il motivo per cui avevo conosciuto Sam e quindi mi ero abituata ad un comportamento abbastanza gentile e aperto.
Non dessi proprio un nome al tipo di sguardo che mi faceva quasi sentire piccola piccola e mi faceva provare quasi paura, ma potevo tradurlo come un'occhiata di intesa, in cui cercava di dirmi che mi voleva parlare o che non era finita lì. Magari avevo frainteso e non stava guardando proprio me, ma quando ci pensai lo vidi muoversi e rivolgermi un gesto inaspettato.
Mi lanciò anche lui una frecciatina e mi fece un veloce cenno con la testa, che non capii, perché mi sentii scuotere il braccio.
«Allora? Ascolti?» tolsi subito la mano dal suo braccio e spostai gli occhi sui suoi, con uno sguardo simile a quando ci si risveglia dopo un bel sogno, solo che avevo dimenticato un sorriso.
«Cosa?» chiesi con nonchance, ma non mi importava e la guardai con occhi stanchi.
Che voleva intendere Christopher con quel suo approccio da lontano? Sembrava non volesse mai più vedere anche solo la mia faccia da quanto avevo capito, ma a quanto pare aveva bisogno anche lui di chiarimenti, forse, ma ero sicura che non sarei stata in grado di darglieli. Io non sapevo nulla, era lui quello che era a conoscenza di quello che era successo. Forse voleva scusarsi? No, non era possibile, sembrava una di quelle persone che spiaccicano a malapena un Buongiorno o un Grazie. Non avrei mai avuto la possibilità di parlare con lui come l'avevo avuta sulla corriera, invece mi ero mostrata debole davanti a lui e in quel momento realizzai di essermi completamente vergognata. Gli avevo pianto in faccia, lui mi aveva vista. Misi una mano sulla fronte, pensando che fossi davvero malata.
Aggrottai le sopracciglia e persi di nuovo quello che mi stava dicendo Marika, ma me ne andai ancora con l'indice ficcato in bocca ed una espressione confusa in faccia. Buttai tutto quello che non avevo mangiato e fu lì che mi accorsi di aver solo addentato un pomodoro. Mi ripromisi che avrei mangiato qualcosa prima di cena, ma sapevo giá che l'avrei dimenticato.
Lei non c'era più, era sparita. Io non sarei riuscita a passare la giornata senza qualcuno, perché lei era la mia più cara amica, come nemica, la mia compagna, come sconosciuta.
Era solo una voce, sì, come ce l'hanno tutti, ma la mia era qualcosa di diverso. Sembrava come un'altra persona, con cui bisogna combattere ogni giorno par far valere la propria opinione. Era come avere una conversazione con una vecchia amica, in cui più facilmente si mettono in tavola i propri pareri, senza avere paura che l'altra giudichi, anzi, che ti dia il consiglio sbagliato.
Io l'avevo capita e lei aveva letto me, ne profondo e sapeva che quella scuola era la peggior decisione che potessi prendere, ma non l'avevo ascoltata e avevo lasciato perdere ciò che lei aveva cercato di consigliarmi.
Mi sentii tremendamente sola e non riuscii a non percorrere il corridoio senza le mani in tasca, in segno di chiusura. Sbuffai un poco e sentivo gli occhi umidi.
"Basta piangere" mi dissi, ma feci esattamente il contrario di quello che mi ero ordinata. Perché tutto andava male? Anche se provavo a prendere la strada opposta questa sembrava distorcersi e prendere la direzione che avrei voluto evitare. Era una strada impervia e scoscesa, ma prima o poi avrei dovuto percorrerla, se non con lei, almeno avrei cercato di intraprenderla da sola.
Il rumore dell'ascensore e delle porte che si aprivano mi fecero sobbalzare e sperai che nessuno uscisse dall'aggeggio metallico per vedere che mi era scesa una lacrima, non avrei saputo come reagire.
Per fortuna era vuota la cabina e mi infilai premendo velocemente il pulsante, ma le porte si bloccarono dopo che mi fui girata dalla parte opposta, con la faccia verso il muro verniciato di rosso. Cercai di rimanere calma e non girarmi, ma quando sentii un profumo non nuovo riempire la cabina, senza farmi sentire, assaporai con l'olfatto quella colonia tanto fresca quanto pungente. Mi si arricciò il naso quando il gusto troppo forte della montagna mi passò attraverso le narici, ma strinsi i pugni e decisi di non girarmi. Sapevo chi dietro di me aspettava che mi voltassi, ma rimasi a mirare la plastica colorata che si stagliava davanti a me, rovinata da qualche incisione con chiavi probabilmente. Mi concentrai un poco sulla scritta "Apart" che era proprio davanti ai miei occhi.
Successivamente realizzai che ero una bambina, sciocca, che aveva paura del nulla, non mi avrebbe mangiato, ma se volevo risposte dovevo farmi avanti.
Quando mi voltai me lo trovai dietro, che era come se avesse aspettato che trovassi il coraggio e così era rimasto a guardare attentamente il muro, come me. Appena alzai lo sguardo lui lo abbassò, per mischiare il suo colore azzurro al mio color marrone chiaro, quasi verde. Era alto due spanne in più di me ed aveva le spalle più larghe che avessi mai visto. Potevano definirsi il doppio delle mie. Indietreggiai, fino ad appoggiarmi al muro. Fu molto strano vederlo osservarmi in quel modo, ma sepevo che stesse pensando a qualcosa, mentre io avevo il cervello completamente annebbiato dalla sua vicinanza, che non era neanche tanta, poco meno di un metro.
«Chiedi ora o scordatelo» disse quelle parole dopo aver pensato attentamente a quello che avrebbe dovuto dire. Sembrava quasi che le sue frasi fossero create con accuratezza nella sua testa, come se avesse paura di dire qualcosa in più, per risultare così interessato. Se era venuto e mi aveva parlato, allora, era interessato.
Strinsi le labbra e abbassai lo sguardo. Non avevo mai tenuto per così tanto tempo gli occhi diretti verso un'altra persona, lo trovavo davvero difficile, ma, forse per la rabbia o il disorientamento, ero riuscita a sostenere il suo. Mi sarei dovuta muovere, il sesto piano non era poi così lontano.
«Chi sei?» gli chiesi e come una stupida mi pentii subito di avergli posto una domanda a cui non avevo minimamente pensato, ma in quel momento mi sembrava la cosa migliore da fare, perché non avrei trovato il coraggio di tempestarlo di parole. La guerra che ci facevamo, o , almeno, quella che mi ero immaginata, consisteva nel cercare di pronunciare meno parole che si poteva, sembrare più che poco interessati e freddi.
Sapevo avrebbe vinto lui.
Non avrei di sicuro ammesso che quella battaglia non mi piacesse, perché unico passatempo che mi rendeva distaccata dall'episodio dell'infermiera.
Lo vidi esitare un attimo, ma fu una cosa infima, nei suoi occhi apparse per un millesimo di secondo, ma poi sparì con un soffio e ripresero a essere accecanti come prima, tanto che dovetti spostare di nuovo lo sguardo.
«A certe domande non rispondo» mi disse fermo, senza aggiungere un movimento con la mano o con la testa. Alzai di scatto il capo e lo infilzai con lo sguardo e mi preparai già una risposta, che però non ebbe il tempo di uscire, visto che la chiamata che dava il segnale di uscita dell'ascensore, fece muovere Christopher fuori da esso, cosa che mi lasciò di stucco.
Presi un respiro lunghissimo, per non mettermi a urlare e dirgli che non aveva senso tutto quello che cercava di fare, se poi si ritirava così bruscamente, come se se ne fosse improvvisamente pentito. Chi si comportava così? Non lo sapevo ecco, fu una delle poche volte il cui non ebbi la minima idea di quello che stava succedendo. Doveva avere qualche battaglia interiore come me probabilmente, ma sembrava sempre riuscire a mascherare quello che provava, come se avesse un telo che lo copriva. Io però rimanevo oscurata e visto che non lo conoscevo, sarei anche dovuta rimanere tremendamente male, ma lo sentivo in qualche, e ripeto qualche, modo vicino a me. Aveva ammesso che avere la coscienza attaccata all'anima fosse una scocciatura, quindi lui lo sapeva. Decisi di mandare a quel paese il suo atteggiamento enigmatico e mi avviai verso la mia stanza. Che poi, che cosa ci faceva Christopher al sesto piano?
Non mi seppi dare risposta, come se fosse stata una novità..
Uscii dall'ascensore e imboccai il corridoio, percorrendolo a passi pesanti.
«Rosalie» sentii alla mia sinistra il mio nome pronunciato a fior di labbra, che mi fece sussultare, visto che ero completamente persa nella mia testa. Alzai poco il capo dalla visione del pavimento marmoreo e spostai il viso nella direzione da cui era arrivata la voce. Sam.
Era oscurato completamente dalla parete bordeaux e intravidi soltanto la sua figura da dietro, solo la schiena riuscii a scorgere. Lo vidi passarsi una mano tra i capelli e riconobbi un anello nero al dito, che mi accertò che fosse Sam. Rimasi per qualche secondo dietro di lui, non sapendo se aspettare se si girasse o cosa, ma quando lo vidi alzare di scatto le spalle mi mossi alla sua sinistra, per poi arrivargli accanto. Allungai un poco il collo per scorgergli il viso, ma era sempre oscurato dalla penombra della parete.
Non avevo ancora realizzato che stesse succedendo, perché troppo distratta dall'avvenimento precedente, ma decisi di avvicinarmi ancora un poco.
Non lo vidi voltarsi verso di me o accennare un movimento che mi avrebbe fatto capire che l'avrebbe in un qualche modo fatto, così mi misi direttamente davanti a lui, con uno sguardo che definire interrogativo è troppo poco.
Lo volevo scrutare attentamente e sapere il motivo per cui mi avesse lasciata da sola con Marika, quando lui stesso si era lamentato perché me ne ero andata dall'istituto senza dire niente a nessuno, o, meglio, se lo avessi saputo pure io avrei di sicuro avvisato.
Aveva le mani nelle tasche dei pantaloni color tronco e non riuscii a staccare lo sguardo dalle macchie rosse che aveva in viso.
Non seppi davvero perché lo feci, anzi, sapevo che mi sarei presa a schiaffi perché tali atteggiamenti affettuosi non facevano proprio per me, ma vederlo in quello stato non riuscivo a sopportarlo.
Era l'unica persona con cui avevo legato, che aveva riposto fiducia in me, anche se lo tenevo a distanza. Mi maledissi per quella volta in cui gli avevo detto che fossi attratta dalle ragazze, che poi, non era pure la verità, volevo solo stuzzicarlo per vedere come avrebbe reagito.
Lui non mi aveva lasciata nel mio brodo come avrebbe fatto benissimo chiunque, ma aveva anche preso l'iniziativa e si era offerto di aiutarmi. Non l'aveva proprio detto, ma come vedevo nelle persone certi atteggiamenti che nascondevano (salvo Christopher), Sam era come un libro aperto. E lo apprezzavo, davvero, davvero tanto.
Forse erano stati i suoi capelli scompigliati, il suo respiro irregolare, che cercava di mascherare in ogni modo serrando le labbra sottili da quando mi ero piazzata davanti a lui, oppure gli occhi bassi, che avevano lasciato cadere una piccola goccia trasparente.
Mi avvicinai un poco, fino ad arrivargli a una spanna di distanza e a quel punto alzò un poco gli occhi. Mi misi in punta di piedi, visto che ero anche per lui un po' bassa e appoggiai le mie mani sulle sue spalle e velocemente lo attrassi a me, circondandogli le spalle con le braccia, che dopo essersi rivelate troppo larghe, le spostai dietro la sua schiena. Entrando a contatto con il tessuto morbido del suo maglione mi spuntò letteralmente un sorrisetto sulle labbra, non seppi spiegarmi il motivo di questo cambiamento d'umore.
Seguì un sussulto da parte sua, di sicuro non per il pianto, ma rimase sorpreso per qualche secondo. Ebbi il dubbio che non avesse voluto che lo toccassi, magari avrebbe voluto stare a distanza da me, ma avevo provato questo gesto perché vedevo in lui una voglia di essere capito, di essere accettato. Cosa di cui anche io avevo bisogno.
Mi sentii la faccia di fuoco quando sentii le sue mani cingermi la vita, per poi andarsi ad appoggiare appena sotto la mia schiena.
Avrei voluto spostare con le mani le sue dalla mia maglietta e mi maledissi per aver fatto tutto quello, ma presi confidenza con la sua grande e calda mano, che mi avrebbe fatto scoppiare qualche mese prima.
Mi rilassai un pochino e persi lo stile rigido che mi ero imposta.
Avvicinai il viso al suo collo e mi ci appoggiai sopra. La posizione per me era un po' scomoda, ma rimasi qualche minuto ad accarezzargli piano la schiena, fino a quando non sentii più il suo respiro affannoso. Lo so che sarebbe dovuto essere di consolazione solo per lui, ma appena lo vidi abbassare le mani per sfiorarmi la vita ebbi una sensazione di sollievo e dimenticai Christopher e tutte le domande senza risposta.
Non ricevevo un abbraccio così da quando era morta mia nonna.
Le sue carezze erano qualcosa di irripetibile e riuscii ad arrivare a qualcosa di simile in quel momento, con Sam, che potevo considerare uno sconosciuto, ma quel calore che sentivo sulla mia pelle e il suo collo scaldarsi sempre di più sotto il mio tocco, mi fece sentire quasi a casa. Era un'emozione che non avrei mai pensato di provare in questa malandata via che avevo preso, ma sapevo che qualcosa di male sarebbe stato prima o poi sbiadito, ma pur sempre non cancellato.

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