Elinor, indietreggiando inorridita al vederlo, obbedì al primo impulso del cuore voltandosi all'istante per lasciare la stanza, e aveva già la mano sulla maniglia, quando il suo gesto fu bloccato dal rapido avvicinarsi di lui, che diceva, con una voce più di comando che di supplica, "Miss Dashwood, per mezzora... per dieci minuti... vi supplico di restare."
"No, signore", replicò lei con fermezza, "non resterò. Quello che avete da fare non può essere con me. I domestici, suppongo, si sono dimenticati di dirvi che Mr. Palmer non è in casa."
"Anche se mi avessero detto", esclamò lui con veemenza, "che Mr. Palmer e tutti i suoi parenti erano all'inferno, non mi avrebbero spostato dalla porta. Quello che devo fare riguarda voi, e solo voi."
"Me!", col massimo sbalordimento, "be', signore, siate breve, e se potete, meno violento."
"Sedetevi, e sarò entrambe le cose." Lei esitava; non sapeva che cosa fare. Le venne in mente la possibilità che arrivasse il Colonnello Brandon e lo trovasse lì. Ma aveva promesso di ascoltarlo, ed era in gioco la sua curiosità non meno del suo onore. Dopo un attimo di riflessione, perciò, rendendosi conto che la prudenza richiedeva rapidità, e che l'arrendevolezza sarebbe stato il modo migliore per favorirla, si diresse in silenzio verso il tavolo, e si sedette. Lui prese la sedia di fronte, e per mezzo minuto nessuno dei due disse una parola. "Vi prego di essere breve, signore", disse Elinor con impazienza, "non ho tempo da perdere." Lui era immerso in una profonda meditazione, e sembrò non averla sentita.
"Vostra sorella", disse bruscamente un momento dopo, "è fuori pericolo. Me l'ha detto il domestico. Dio sia lodato! Ma è vero? è proprio vero?" Elinor non voleva parlare. Lui ripeté la domanda con un impeto ancora maggiore.
"Per l'amor di Dio, ditemelo, è fuori pericolo, o no?"
"Lo speriamo." Lui si alzò, e cominciò a camminare su e giù per la stanza.
"Se l'avessi saputo solo mezzora fa. Ma dato che sono qui", disse con una vivacità forzata mentre tornava a sedersi, "che senso ha? Per una volta, Miss Dashwood, sarà l'ultima, forse, cerchiamo di essere allegri. Sono dell'umore giusto per gioire. Ditemi onestamente", un profondo rossore gli si diffuse in viso, "mi credete più un mascalzone o uno stupido?" Elinor lo guardò più che mai sbalordita. Cominciava a pensare che avesse bevuto; la stranezza di una visita del genere, e di modi simili, non sembrava spiegabile altrimenti; e con questa impressione si alzò immediatamente, dicendo, "Mr. Willoughby, vi consiglio di tornare subito a Combe. Non ho il tempo di restare con voi a lungo. Qualsiasi cosa abbiate da dirmi, sarà meglio ripensarci e parlarne domani."
"Vi capisco", replicò lui, con un sorriso espressivo, e una voce perfettamente calma; "sì, sono davvero ubriaco. Una pinta di birra con manzo freddo a Marlborough è bastata a sopraffarmi."
"A Marlborough!", esclamò Elinor, sempre più incapace di capire dove volesse andare a parare.
"Sì, ho lasciato Londra stamattina alle otto, e i soli dieci minuti che da quel momento ho passato fuori dalla carrozza sono serviti per uno spuntino a Marlborough." La calma dei suoi modi, e ciò che traspariva dagli occhi mentre parlava, convinse Elinor che qualunque altra imperdonabile follia lo avesse spinto a venire a Cleveland, non era lì per l'ubriachezza, e, dopo un attimo di riflessione, disse, "Mr. Willoughby, dovete rendervi conto, come sicuramente faccio io, che dopo quello che è successo, venire qui in questo modo, e imporvi alla mia attenzione, richiede una giustificazione molto particolare. Qual è, che intenzioni avete?"
"Ho intenzione", disse lui, serio e con forza, "se posso, di farmi odiare da voi un po' meno di quanto non lo facciate adesso. Ho intenzione di offrirvi un qualche genere di spiegazione, di scusa, per il passato; di aprirmi completamente con voi, e di convincervi che per quanto io sia sempre stato una testa dura, non sono stato sempre una canaglia, così da ottenere qualcosa di simile al perdono da parte di Ma... di vostra sorella."
"È questo il vero motivo della vostra venuta?"
"Sull'anima mia, sì", fu la sua risposta, con un calore che le riportò in mente tutto il Willoughby di una volta, e contro la sua volontà glielo fece ritenere sincero.
"Se questo è tutto, potete già ritenervi soddisfatto, perché Marianne vi ha, e da tempo, perdonato."
"Mi ha perdonato!", esclamò lui, con lo stesso ardore.
"Allora lo ha fatto prima di quanto avrebbe dovuto. Ma mi perdonerà di nuovo, e su basi più ragionevoli. Adesso volete ascoltarmi?" Elinor assentì con un cenno del capo.
"Non so", disse, dopo una pausa di aspettativa da parte di lei, e di riflessione da parte di lui, "come voi abbiate spiegato il mio comportamento con vostra sorella, o quale diabolico motivo mi abbiate attribuito. Forse per voi sarà difficile giudicarmi migliore, comunque vale la pena di tentare, e saprete tutto. I primi tempi in cui divenni intimo della vostra famiglia, non avevo altra intenzione, altro scopo in quella conoscenza che trascorrere piacevolmente il mio tempo mentre ero costretto a restare nel Devonshire, più piacevolmente di quanto avessi mai fatto prima. Il fascino e i modi accattivanti di vostra sorella non potevano non piacermi, e il suo comportamento verso di me, fin dal primo momento, era così... È incredibile, quando rifletto su com'era il suo comportamento, e su com'era lei, che il mio cuore sia rimasto così insensibile! Ma all'inizio, devo confessarlo, fu solo la mia vanità a esserne esaltata. Incurante della sua felicità, pensando solo al mio divertimento, abbandonandomi a sentimenti a cui ero sempre stato troppo abituato a indulgere, cercavo, con ogni mezzo a mia disposizione, di piacerle, senza nessuna intenzione di ricambiare il suo affetto." Miss Dashwood, a quel punto, rivolgendogli uno sguardo pieno di collera e disprezzo, lo fermò, dicendo, "Non vale la pena, Mr. Willoughby, che voi raccontiate, o che io stia a sentire, più oltre. Un tale inizio non può avere nessun seguito. Non fatemi soffrire ascoltando altro su questo argomento."
"Insisto affinché ascoltiate tutto", replicò lui. "Non ho mai avuto larghezza di mezzi, e ho sempre speso troppo, sempre abituato come sono stato a frequentare persone con entrate superiori alle mie. Ogni anno passato dalla mia maggiore età, o anche prima, ne sono convinto, aggiungeva qualcosa ai miei debiti; e anche se la morte della mia vecchia cugina, Mrs. Smith, me ne avrebbe liberato, era un evento incerto, probabilmente molto lontano, e quindi per qualche tempo la mia intenzione era stata quella di rimettere in sesto la mia posizione sposando una donna ricca. Un legame con vostra sorella, perciò, era fuori discussione; e con una meschinità, un egoismo, una crudeltà... che nessuno sguardo indignato o sprezzante, persino il vostro, Miss Dashwood, potrebbe mai condannare abbastanza... mi comportavo in questo modo, cercando di suscitare la sua stima, senza nessuna intenzione di ricambiarla. Ma una cosa si può dire a mio favore, persino in quell'orrendo stato di egoistica vanità, non mi rendevo conto dell'enormità della ferita che meditavo di infliggere, perché allora non sapevo che cosa significasse amare. Ma l'ho mai saputo? Se ne può dubitare, perché, se avessi realmente amato, avrei potuto sacrificare i miei sentimenti alla vanità, all'avidità? o, ancora peggio, avrei potuto sacrificare i suoi? Ma l'ho fatto. Per evitare una relativa povertà, che il suo affetto e la sua vicinanza avrebbero spogliato di tutti i suoi orrori, ho perso, per raggiungere la ricchezza, tutto ciò che avrebbe potuto renderla una benedizione."
"Allora", disse Elinor, un po' ammorbidita, "c'è stato un tempo in cui avete creduto di volerle bene?"
"Resistere a un tale fascino, respingere una tale tenerezza! quale uomo al mondo avrebbe potuto farlo! Sì, mi sono trovato, a poco a poco, a essere sinceramente innamorato di lei; e le ore più felici della mia vita sono state quelle che ho trascorso con lei quando sentivo che le mie intenzioni erano assolutamente onorevoli, e i miei sentimenti irreprensibili. Persino allora, tuttavia, una volta fermamente determinato a dichiararmi con lei, ho permesso a me stesso in modo molto sconveniente di rimandare, giorno dopo giorno, il momento di farlo, riluttante a impegnarmi mentre la mia situazione era così complicata. Non voglio discutere ora, né voglio soffermarmi a dissertare con voi sull'assurdità, peggio ancora che l'assurdità, di esitare a impegnare la mia fede quando il mio onore era già tenuto a farlo. I fatti hanno dimostrato che ero uno sciocco calcolatore, che mi stavo preparando con grande cautela alla possibile opportunità di rendermi spregevole e infelice per sempre. Alla fine, tuttavia, presi la mia decisione, e decisi, non appena l'avessi trovata da sola, di giustificare le attenzioni che le avevo con tanta costanza tributato, e di confermarle apertamente un affetto che mi ero già preso tanta cura di dimostrare. Ma nel frattempo, in quell'intervallo di pochissime ore che dovevano passare prima che avessi l'opportunità di parlarle in privato, si verificò una circostanza... una malaugurata circostanza, che mise fine a tutta la mia fermezza, e con essa a tutta la mia felicità. Ci fu una scoperta..." qui lui esitò e abbassò lo sguardo.
"Mrs. Smith era stata in qualche modo informata, immagino da qualche lontano parente il cui interesse era di privarmi dei suoi favori, di una faccenda, di un legame... ma non c'è bisogno che vada oltre..." aggiunse, scrutandola con il volto in fiamme e uno sguardo indagatore, "la vostra particolare intimità... avete probabilmente saputo da tempo l'intera storia."
"Sì", rispose Elinor, arrossendo allo stesso modo e irrigidendosi di nuovo verso qualsiasi compassione per lui, "ho saputo tutto. E in che modo giustificherete tutta la vostra colpa in una faccenda così terribile, confesso che va al di là della mia comprensione."
"Ricordatevi", esclamò Willoughby, "da chi l'avete saputo. Poteva essere imparziale? Riconosco che avrei dovuto rispettare la sua condizione e la sua reputazione. Non intendo giustificarmi, ma allo stesso tempo non posso lasciarvi credere che io non abbia nulla da dire... che per il fatto di essere stata offesa lei fosse irreprensibile, e che dato che io sono stato un libertino, lei debba essere una santa. Se la violenza della sua passione, la debolezza del suo giudizio... non intendo, comunque, difendere me stesso. Il suo affetto per me meritava un trattamento migliore, e spesso, con un forte senso di colpa, rammento quella tenerezza che, per un brevissimo periodo, fu capace di far sì che la ricambiassi. Vorrei... vorrei con tutto il cuore che non fosse mai successo. Ma ho offeso più che solo lei, ho offeso una persona il cui affetto per me (posso dirlo?) non era meno ardente del suo, e la cui mente... Oh! quanto infinitamente superiore!"
"Tuttavia la vostra indifferenza verso quella sventurata ragazza... devo dirlo, per quanto possa essere spiacevole per me una discussione su un tale argomento... la vostra indifferenza non scusa la crudele negligenza verso di lei. Non crediate di essere scusato da una qualche debolezza, una qualche innata deficienza di giudizio da parte sua, per l'ingiustificabile e così evidente crudeltà da parte vostra. Dovevate sapere che mentre vi stavate divertendo nel Devonshire perseguendo nuovi progetti, sempre allegro, sempre felice, lei era ridotta a un'estrema indigenza."
"Ma, sul mio onore, non lo sapevo", replicò lui con ardore; "non ricordavo di aver trascurato di darle il mio indirizzo; e il buonsenso avrebbe dovuto suggerirle come trovarlo."
"Comunque, signore, che cosa vi disse Mrs. Smith?"
"Mi accusò subito di quell'offesa, e potete immaginare la mia confusione. La purezza della sua vita, il formalismo delle sue idee, la sua ignoranza del mondo... tutto era contro di me. Non potevo certo negare il fatto, e tutti i miei sforzi per minimizzarlo furono inutili. Era già predisposta, ne sono convinto, a dubitare della mia condotta in generale, e per di più era scontenta della poca attenzione, della piccolissima parte del mio tempo, che le avevo dedicato durante quella visita. In breve, finì con una rottura totale. Solo una cosa avrebbe potuto salvarmi. Dall'alto della sua moralità, povera donna! si offrì di perdonare il passato, se avessi sposato Eliza. Non era certo possibile, e fui formalmente congedato dal suo favore e dalla sua casa. La notte che seguì questa scena - dovevo andarmene il mattino dopo - la passai a riflettere su quale sarebbe stata la mia condotta futura. La lotta fu dura, ma si concluse in fretta. Il mio affetto per Marianne, la mia assoluta convinzione del suo attaccamento per me, tutto questo non bastò per vincere il terrore della povertà, o per avere la meglio su quelle false idee sulla necessità di essere ricchi, verso le quali ero propenso per natura, e che le compagnie facoltose avevano incrementato. Avevo ragione di credermi sicuro della mia attuale moglie, se avessi scelto di rivolgermi a lei, e mi convinsi a pensare che secondo la normale prudenza non ci fosse nient'altro da fare. Tuttavia mi attendeva una scena molto penosa, prima di poter lasciare il Devonshire; proprio quel giorno mi ero impegnato a pranzare con voi; era perciò necessario presentare una qualche scusa per aver disatteso quell'impegno. Ma se tali scuse andassero fatte per iscritto o di persona, fu un punto che mi lasciò a lungo indeciso. Vedere Marianne mi sembrava terribile, e dubitavo persino di riuscire a rivederla mantenendo salda la mia decisione. In questo, tuttavia, avevo sottovalutato la mia forza d'animo, come gli eventi hanno dimostrato; perché venni, la vidi, la vidi infelice, e infelice la lasciai... e la lasciai sperando di non rivederla mai più."
"Perché veniste, Mr. Willoughby?" disse Elinor, con aria di rimprovero, "un biglietto sarebbe bastato. Perché fu necessario venire?"
"Fu necessario al mio orgoglio. Non riuscivo a sopportare di andarmene in un modo che avrebbe portato voi, e il resto del vicinato, a sospettare qualcosa di ciò che era veramente successo tra Mrs. Smith e me, e quindi decisi di venire al cottage, sulla strada per Honiton. Vedere vostra sorella, però, fu davvero terribile; e a peggiorare le cose, la trovai da sola. Voi eravate tutte andate non so dove. L'avevo lasciata solo la sera prima, così completamente, così fermamente deciso dentro di me a fare ciò che era giusto! Ancora poche ore e l'avrei legata a me per sempre; e ricordo il mio stato d'animo felice, gioioso, mentre tornavo a Allenham dal cottage, soddisfatto con me stesso, contento di tutti! Ma stavolta, nel nostro ultimo colloquio da amici, mi avvicinai a lei con un senso di colpa che quasi mi privava della capacità di dissimularlo. Il suo dolore, la sua delusione, il suo profondo rimpianto, quando le dissi che ero costretto a lasciare immediatamente il Devonshire... non li dimenticherò mai, uniti come erano a una tale fiducia, a una tale speranza in me! Oh, Dio! che spietato farabutto sono stato!" Rimasero entrambi in silenzio per qualche momento. Elinor parlò per prima.
"Le avete detto che sareste tornato presto?"
"Non so che cosa le dissi", rispose lui, con impazienza; "meno di quanto il passato avrebbe meritato, senza dubbio, e probabilmente molto di più di quanto fosse giustificato dal futuro. Non posso pensarci. Non voglio. Poi arrivò la vostra cara madre a torturarmi ancora di più, con tutta la sua gentilezza e la sua fiducia. Grazie al cielo, questo mi torturò. Ero disperato. Miss Dashwood, non avete idea del conforto che mi dà ripensare alla mia infelicità. Provo un tale rancore verso me stesso per la stupida, ignobile follia del mio cuore, che tutte le sofferenze passate ora sono solo trionfo ed esultanza per me. Insomma, me ne andai, lasciai tutto ciò che amavo, e andai da coloro che, al massimo, mi erano solo indifferenti. Il mio viaggio verso Londra... da solo nella mia carrozza, e perciò così noioso... nessuno con cui parlare... le mie riflessioni così allegre... quando guardavo avanti tutto così invitante! quando guardavo indietro a Barton, un'immagine così rassicurante! oh, è stato davvero un bel viaggio!" Tacque.
"Be', signore", disse Elinor, che lo compativa ma era anche impaziente che se ne andasse, "e questo è tutto?"
"Tutto! no, avete dimenticato quello che è successo a Londra? Quella lettera infame. Ve l'ha mostrata?"
"Sì, ho visto tutti i biglietti che si sono succeduti."
"Quando mi è arrivato il primo (mi è arrivato immediatamente, perché sono stato in città per tutto il tempo), quello che provai... per usare un eufemismo, non si può esprimere a parole; più semplicemente... forse con parole troppo semplici per suscitare una qualsiasi emozione... i miei sentimenti furono molto, molto dolorosi. Ogni rigo, ogni parola era... per usare una metafora abusata che la cara autrice, se fosse qui, mi proibirebbe... una pugnalata al cuore. Sapere che Marianne era in città fu... nello stesso linguaggio... un fulmine a ciel sereno. Fulmini e pugnali! che rimproveri mi avrebbe fatto! i suoi gusti, i suoi giudizi... credo di conoscerli meglio dei miei, e di certo mi sono più cari." Il cuore di Elinor, che nel corso di quello straordinario colloquio aveva subito molte oscillazioni, adesso si era di nuovo ammorbidito; eppure sentiva di dover frenare quel genere di idee nel suo interlocutore.
"Questo non è giusto, Mr. Willoughby. Ricordatevi che siete un uomo sposato. Riferite solo quello che in coscienza ritenete necessario che io ascolti."
"Il biglietto di Marianne, assicurandomi di come le fossi ancora caro come nel passato, di come nonostante le molte, moltissime settimane in cui eravamo stati separati, lei fosse rimasta costante nei suoi sentimenti, e di come fosse ancora piena di fiducia nella costanza dei miei, risvegliò tutti i miei rimorsi. Dico risvegliò, perché il tempo passato e Londra, gli impegni e i bagordi, li avevano in qualche misura accantonati, e stavo diventando una canaglia incallita, immaginandomi indifferente a lei, e preferendo immaginare che anche lei fosse diventata indifferente nei miei confronti; pensavo al nostro passato affetto come a un ozioso passatempo, con un'alzata di spalle a riprova che fosse così, e mettendo a tacere ogni biasimo, superando ogni scrupolo, dicendomi di tanto in tanto, «sarò veramente contento di sapere che ha fatto un buon matrimonio.» Ma quel biglietto mi rese più consapevole di me stesso. Capii che lei mi era più cara di qualsiasi altra donna al mondo, e che l'avevo trattata in modo infame. Ma ormai tra Miss Grey e me era tutto stabilito. Tirarsi indietro era impossibile. Tutto quello che dovevo fare era di evitarvi entrambe. Non mandai nessuna risposta a Marianne, con l'intenzione di sottrarmi a ulteriori comunicazioni da parte sua; e per qualche tempo decisi anche di non far visita a Berkeley-street; ma alla fine, giudicando più saggio fingere che fosse una conoscenza comune e banale come qualsiasi altra, una mattina vi spiai finché non usciste tutte, e lasciai il mio biglietto."
"Spiavate le nostre uscite!"
"Proprio così. Sareste sorpresa sapendo quante volte vi ho spiate, quante volte sono stato sul punto di imbattermi in voi. Sono entrato in molti negozi per evitare di essere visto, mentre si avvicinava la carrozza. Stando a Bond-street, non c'è stato praticamente giorno in cui non abbia intravisto l'una o l'altra; e nulla se non la costante attenzione da parte mia, il perdurante e immutabile desiderio di tenermi lontano da voi, avrebbe potuto tenerci separati così a lungo. Evitavo il più possibile i Middleton, così come chiunque altro che potesse essere considerato una conoscenza comune. Tuttavia, ignaro che loro fossero in città, mi imbattei in Sir John, credo il giorno del suo arrivo, e il giorno dopo la mia visita a casa di Mrs. Jennings. Lui mi invitò a un ricevimento, un ballo a casa sua in serata. Se anche non mi avesse detto, per invogliarmi, che ci sareste state anche voi e vostra sorella, l'avrei ritenuto un fatto troppo certo per arrischiarmi ad andare. Il mattino successivo arrivò un altro biglietto di Marianne, ancora affettuoso, aperto, spontaneo, fiducioso... tutto quello che poteva rendere la mia condotta più odiosa. Non riuscii a rispondere. Tentai... ma non fui in grado di mettere insieme una frase. Tuttavia pensai a lei, credo, in ogni momento di quella giornata. Se riuscite ad avere pietà di me, Miss Dashwood, fatelo per la mia situazione di allora. Con la testa e il cuore colmi di vostra sorella, ero costretto a recitare la parte dell'innamorato felice con un'altra donna! Quelle tre o quattro settimane sono state le peggiori di tutte. Comunque, alla fine, non ho bisogno di raccontarvelo, mi fu imposta la vostra presenza, e che bella figura feci! che angoscia quella sera! Da una parte Marianne, bella come un angelo, che mi chiamava Willoughby con quel tono di voce! Oh, Dio! che mi offriva la mano, chiedendomi una spiegazione con quegli occhi seducenti che mi fissavano in volto con un'ansia così eloquente! e dall'altra Sophia, gelosa come un demonio, che osservava tutto. Be', non ha più importanza, ormai è passato. Che serata! Scappai via non appena possibile, ma non prima di aver visto il dolce volto di Marianne bianco come fosse morta. Quella è stata l'ultima, l'ultima immagine che ho avuto di lei; lo stato in cui l'ho vista per l'ultima volta. Fu una visione orribile! eppure quando oggi pensavo a lei davvero in punto di morte, è stata una sorta di consolazione immaginare che sapevo esattamente come sarebbe apparsa, a quelli che l'avrebbero vista per l'ultima volta in questo mondo. Era di fronte a me, continuamente di fronte a me, mentre viaggiavo, con lo stesso aspetto e lo stesso pallore." Seguì una breve pausa di riflessione da parte di tutti e due. Willoughby si riprese per primo, e la interruppe così:
"Be', devo affrettarmi e andare. Vostra sorella sta davvero meglio, è davvero fuori pericolo?"
"Ci hanno assicurato di sì."
"La vostra povera madre, anche! che adora Marianne."
"Ma la lettera, Mr. Willoughby, la vostra lettera; non avete nulla da dire in proposito?"
"Sì, sì, quella in particolare. Vostra sorella mi aveva scritto di nuovo, lo sapete, il mattino dopo. Avete visto quello che diceva. Io stavo facendo colazione dagli Ellison, e la lettera, con alcune altre, mi fu recapitata là da casa mia. Accadde che catturò lo sguardo di Sophia prima di catturare il mio, e il formato, l'eleganza della carta, la calligrafia soprattutto, la misero immediatamente in sospetto. In precedenza aveva avuto qualche vaga notizia di una mia simpatia per una ragazza del Devonshire, e quello che era successo davanti ai suoi occhi la sera precedente aveva chiarito chi fosse la ragazza, e l'aveva resa più gelosa che mai. Fingendo un'aria scherzosa, perciò, che è deliziosa nella donna che si ama, aprì subito la lettera, e ne lesse il contenuto. Fu ben ripagata per la sua sfacciataggine. Lesse ciò che la rese infelice. La sua infelicità l'avrei sopportata, ma la sua collera... la sua malignità. Andava in ogni caso placata. E in breve... che cosa ne pensate dello stile epistolare di mia moglie? delicato... tenero... davvero femminile... non è vero?"
"Vostra moglie! La lettera era nella vostra calligrafia."
"Sì, ma ho avuto solo il privilegio di copiare servilmente le sue frasi e di vergognarmi di averle sottoscritte. L'originale era tutto suo, suoi i pensieri delicati e lo stile garbato. Ma che potevo fare? eravamo fidanzati, tutti i preparativi in corso, la data quasi stabilita. Ma sto parlando come un idiota. Preparativi! data! Per dirla onestamente, mi era necessario il suo denaro, e in una situazione come la mia, si doveva fare di tutto per impedire una rottura. E dopo tutto, che importanza aveva, per l'opinione di Marianne e dei suoi amici sulla mia reputazione, il linguaggio con il quale era stilata la mia risposta? Serviva solo a uno scopo. Il mio compito era di dichiararmi un farabutto, e farlo con un inchino o con volgarità aveva ben poca importanza. «Sono rovinato per sempre nella loro stima - mi dicevo - sono bandito per sempre dalla loro compagnia, già mi ritengono un individuo senza principi, questa lettera li porterà solo a ritenermi un mascalzone.» Tali erano le mie riflessioni, mentre, in una sorta di disperata noncuranza, copiavo le parole di mia moglie, e mi separavo dagli ultimi ricordi di Marianne. I suoi tre biglietti - sfortunatamente erano nel mio portafogli, altrimenti ne avrei negato l'esistenza, e li avrei serbati per sempre - fui costretto a tirarli fuori, e non potei nemmeno baciarli. E la ciocca dei suoi capelli - anch'essa sempre con me nello stesso portafogli, che ora era frugato dalla Signora con untuosa aggressività - la cara ciocca... tutto, ogni ricordo mi veniva strappato."
"Vi sbagliate di grosso, Mr. Willoughby, meritate un severo biasimo", disse Elinor, mentre la voce, a sua insaputa, tradiva la compassione; "non dovete parlare in questo modo, né di Mrs. Willoughby né di mia sorella. Avete fatto la vostra scelta. Nessuno vi ha costretto. Vostra moglie ha diritto, almeno, alla vostra gentilezza, al vostro rispetto. Deve provare affetto per voi, altrimenti non vi avrebbe sposato. Trattarla sgarbatamente, parlarne con disprezzo non è una riparazione verso Marianne, né, suppongo, un sollievo per la vostra coscienza."
"Non parlatemi di mia moglie", disse lui con un profondo sospiro. "Non merita la vostra compassione. Quando ci siamo sposati sapeva che non avevo nessuna stima di lei. Comunque, ci siamo sposati, siamo andati a Combe Magna per essere felici, e poi siamo tornati a Londra per essere allegri. E ora avete compassione di me, Miss Dashwood? oppure ho detto tutto questo per nulla? Sono... sia pure di pochissimo... sono meno colpevole di prima ai vostri occhi? Le mie intenzioni non sono state sempre cattive. Ho giustificato almeno parte delle mie colpe?"
"Sì, certamente ne avete cancellata qualcuna... poche. Vi siete dimostrato, tutto sommato, meno colpevole di quanto avessi creduto. Avete dimostrato che il vostro cuore è meno malvagio, molto meno malvagio. Ma non so proprio... la sofferenza che avete inflitto... non so proprio come avrebbe potuto essere peggiore."
"Riporterete a Vostra sorella, quando si sarà ristabilita, quello che vi ho detto? Fate sì che la sua opinione su di me possa migliorare un po', così come la vostra. Mi avete detto che mi ha già perdonato. Consentitemi di immaginare che conoscendo meglio il mio cuore, e i miei attuali sentimenti, nasca in lei un perdono più spontaneo, più naturale, più delicato, e meno solenne. Parlatele della mia infelicità e della mia penitenza... ditele che il mio cuore non è mai stato incostante verso di lei, e se volete, che adesso mi è più cara che mai."
"Le dirò tutto quello che sarà necessario a quella che, in un certo senso, si può chiamare la vostra giustificazione. Ma non mi avete spiegato la ragione precisa per cui siete venuto adesso, né come avete saputo della sua malattia."
"Ieri sera, nell'atrio del Drury Lane, mi sono imbattuto in Sir John Middleton, e quando mi ha riconosciuto - per la prima volta in questi due mesi - mi ha rivolto la parola. Che mi avesse sempre evitato dal giorno del mio matrimonio, me n'ero accorto senza sorpresa o risentimento. In quel momento, tuttavia, il suo animo bonario, onesto, un po' stupido, pieno di indignazione verso di me, e preoccupazione per vostra sorella, non è riuscito a resistere alla tentazione di dirmi ciò che sapeva avrebbe dovuto tormentarmi orribilmente, anche se forse non lo riteneva probabile. Nel modo più diretto possibile, perciò, mi ha detto che Marianne Dashwood stava morendo per una febbre infettiva a Cleveland; una lettera di Mrs. Jennings ricevuta quella mattina parlava di imminente pericolo di vita; i Palmer se n'erano andati impauriti, e così via; sono rimasto talmente sconvolto che non sono riuscito a farmi credere indifferente nemmeno da una persona così poco perspicace come Sir John. Il suo cuore si è addolcito vedendo la sofferenza del mio, e molto del suo rancore è stato spazzato via, tanto che, quando ci siamo salutati, mi ha dato una vigorosa stretta di mano mentre mi ricordava una vecchia promessa circa un cucciolo di pointer. Che cosa ho provato sentendo che vostra sorella stesse morendo... e morendo, oltretutto, credendomi il peggior farabutto sulla faccia della terra, disprezzandomi, odiandomi nei suoi ultimi istanti... perché come potevo sapere di quali orribili piani non fossi stato accusato? Una persona in particolare, ne sono certo, mi avrebbe descritto come capace di qualsiasi cosa. Ciò che provai fu spaventoso! Mi decisi immediatamente, e alle otto di stamattina ero nella mia carrozza. Ora sapete tutto." Elinor non rispose. I suoi pensieri erano rivolti in silenzio al danno irreparabile che un'indipendenza troppo precoce, e le conseguenti abitudini all'ozio, alla vita dissoluta, e al lusso, avevano prodotto sulla mente, il carattere, la felicità, di un uomo che a tutti i vantaggi del fisico e dell'ingegno, univa una naturale inclinazione alla spontaneità e all'onestà, e un temperamento affettuoso e sensibile. Il mondo lo aveva reso prodigo e vanitoso. La prodigalità e la vanità lo avevano reso freddo ed egoista. La vanità, cercando il proprio colpevole trionfo a spese di un'altra persona, lo aveva coinvolto in un affetto sincero, che la prodigalità, o almeno un suo prodotto, la necessità, aveva imposto di sacrificare. Ciascuna delle sue cattive inclinazioni, facendolo propendere per il male, lo aveva condotto allo stesso modo verso la punizione. Quell'affetto, dal quale, contro l'onore, contro i sentimenti, contro ogni interesse più nobile, si era apparentemente distaccato, ora, quando ormai non era più lecito, dominava ogni suo pensiero; e quell'unione, per la quale aveva, con pochi scrupoli, ridotto la sorella alla disperazione, si sarebbe probabilmente dimostrata per lui una fonte di infelicità di natura ancora più incurabile. Da una fantasticheria di questo genere fu risvegliata dopo pochi minuti da Willoughby, che, emerso anche lui da una fantasticheria almeno altrettanto dolorosa, si stava accingendo a prepararsi a partire, e disse, "È inutile che rimanga qui; devo andarmene."
"Tornate a Londra?"
"No, a Combe Magna. Ho degli affari da sbrigare; da lì andrò a Londra tra un giorno o due. Addio." Gli tese la mano. Lei non poté rifiutare di dargli la sua, e lui la strinse con affetto.
"E voi mi giudicate un po' meglio rispetto a prima?", disse lui, lasciandole la mano, e appoggiandosi alla mensola del camino come se si fosse dimenticato di stare per andarsene. Elinor lo assicurò che era così: che lo perdonava, che provava compassione per lui, che gli augurava ogni bene; che era persino interessata alla sua felicità, e aggiunse qualche garbato consiglio circa il comportamento più appropriato per favorirla. La sua risposta non fu molto incoraggiante.
"Quanto a questo," disse, "devo tirare avanti meglio che posso. La felicità domestica è fuori discussione. Se, tuttavia, mi sarà concesso di pensare che voi e la vostra famiglia proviate interesse per la mia sorte e le mie azioni, potrà essere il mezzo... potrà mettermi in guardia... sarà almeno qualcosa per cui vivere. Marianne è certo persa per sempre. Anche se una qualche fortunata occasione mi rendesse di nuovo libero..." Elinor lo fermò con un rimprovero.
"Be'", replicò lui, "ancora una volta addio. Ora me ne andrò e vivrò nel terrore di un evento."
"Che intendete dire?" "Il matrimonio di vostra sorella."
"Vi sbagliate di grosso. Per voi non potrà mai essere più perduta di quanto lo sia adesso."
"Ma sarà di qualcun altro. E se questo qualcuno dovesse essere proprio colui che, rispetto a chiunque altro, potrei sopportare di meno... Ma non voglio privarmi di tutta la vostra misericordiosa benevolenza, mostrandovi che là dove ho offeso di più sono meno disposto a perdonare. Addio, che Dio vi benedica!" E con queste parole, quasi scappò via dalla stanza.
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Ragione e sentimento - Jane Austen
Classics"Sette anni non basterebbero a fare in modo che certe persone si conoscano l'un l'altra, mentre per altri sette giorni sono più che sufficienti."