Matt
Non è ancora finita. Non è ancora finita. Finché avrò forza mi ostinerò a continuare a correre. La gola brucia tantissimo, i muscoli sono sul punto di essere assaliti dai crampi, eppure continuo a correre. Sono riuscito a penetrare fra le file difensive avversarie come solo il mio amico Paul sarebbe in grado di fare. Lui è proprio dietro di me, continua a correre inseguendomi, pronto a ricevere l'ovale se le cose dovessero andare per il verso sbagliato. Sono quasi sulla linea dei ventidue avversaria quando vengo fermato dall'estremo australiano; essendo più minuto di me mi placca bloccandomi per le gambe. Passo il pallone a Paul prima di finire a terra e rimango a guardarlo mentre corre come un dannato verso la linea di meta. Anche lui è esausto, non riesce più ad essere veloce come nei primi minuti di gioco; infatti non ce la fa. Le ali dei Wallabies lo raggiungono all'altezza dei cinque metri1. Undici e quattordici lo portano a terra e cercano di rubargli il pallone. Paul è solo, mi rialzo a fatica per andargli in aiuto, il resto dei giocatori che finalmente sopraggiunge, ma è tardi. Commette infrazione pur di non lasciare l'ovale. Il gioco si interrompe, calcio di punizione per gli australiani.
È tutto da rifare e siamo al settantasettesimo minuto. Il punteggio è di ventotto a trenta per gli avversari. Ognuno dei miei compagni di squadra è consapevole che ci basterebbe poco, davvero poco, per battere la nazionale australiana. Sarebbe sufficiente un drop2, un calcio di punizione, per superarli e poi schierarsi in difesa con l'intenzione di proteggere strenuamente la nostra metà campo negli ultimi minuti di gioco – che solitamente non passano mai. Tuttavia la rimessa laterale che verrà giocata ora è in favore degli avversari, il che significa che se vogliamo vincere non solo dobbiamo fare punto, ma dobbiamo prima recuperare palla.
Raggiungo i miei compagni nel posto da cui riprenderà il gioco e li osservo tutti: «Non è finita» li incoraggio.
Loro mi guardano, acconsentono determinati: nessuno si è ancora arreso. Il gioco riparte; i secondi scorrono concitati, gli australiani attaccano e noi difendiamo meglio che possiamo, consapevoli di avere ancora una possibilità.
Improvvisamente l'arbitro fischia. Mi volto subito a guardarlo, più preoccupato che mai. Tiene il braccio disteso in direzione del territorio dei Wallabies, il fallo che ha appena fischiato, lo ha fischiato contro di noi. Vorrei aver visto male, ma non è così; il gesto che fa lascia intuire che il placcatore non è rotolato via dal giocatore placcato3. Mi avvicino al punto in cui si trova, per cercare di capire. Gareth, pilone gallese, si sta alzando in piedi, scuotendo la testa sconsolato. La nazionale australiana decide di andare per i pali, la posizione è favorevole, così facendo avrebbero tre punti in più da aggiungere al loro tabellone.
Il silenzio del Millennium Stadium è inverosimile mentre il giocatore si prepara a calciare e, quando il pallone passa dai pali, si può quasi percepire la delusione che aleggia nell'aria.
Jonathan, apertura dei Dragoni, recupera in fretta l'ovale per poterlo rimettere in gioco subito ma, come calcia, il tempo scade e l'australiano che recupera palla la spedisce fuori dalla linea di confine, sancendo il termine della partita.
Ora sì, che è finita. Ventotto a trentatré per loro, l'Australia ci ha battuti.
Non so neanche dire cosa provo, come ci si senta a essere tornati in campo, sotto al tetto del Millennium Stadium, ed essere stati vicini, così maledettamente vicini, a vincere contro una squadra di tale livello.
È il momento delle strette di mano, i giocatori si cercano reciprocamente, australiani e gallesi, ci si complimenta per la vittoria, la determinazione e ci si scambia qualche veloce parola prima di ritrovarsi alla cena del terzo tempo, fra poche ore.
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