Una folata di aria gelida e pungente m'investì in pieno, facendomi rabbrividire e svegliandomi improvvisamente.
Mi rigirai d'istinto nel letto, mugolando qualcosa di indistinto e cercando inutilmente di tornare a dormire.In un primo momento non capii nemmeno da dove potesse provenire tutto quel vento, considerato che Derek il giorno prima aveva deciso di sbarrare la mia finestra — «È per proteggerti» aveva detto, col suo solito fare da capo.
Ma poco dopo, quando tentai di muovermi ancora, mi accorsi di non essere più avvolta dalle mie morbide coperte rosa.Ero ferma su un pavimento duro e scomodo, e realizzai presto di non essere — almeno non più — in camera mia. Neanche lontanamente.
Sapevo solo di essere ormai seduta a terra, con le ginocchia piegate e la testa poggiata a un muro rovinato e umido come non mai.
Avevo gli occhi chiusi, serrati, e fino ad allora non me ne ero nemmeno accorta; ero così spaventata che non ci avevo nemmeno fatto caso.Li aprii lentamente e con una fatica disumana, come se le mie palpebre si stessero rifiutando di muoversi anche di un solo millimetro. Perciò procedetti per gradi.
Inizialmente vidi soltanto il pavimento: grigio — probabilmente di cemento —, sudicio e ricoperto di polvere, pezzi di intonaco ormai ammuffiti e cianfrusaglie varie.
Ogni tanto si trovava una macchia più scura — grande quanto una pallina da ping-pong o poco più — quasi con regolarità. Pensai che fosse soltanto acqua piovana entrata dal soffitto — martoriato e malmesso come l'intera abitazione —, e perciò non ci prestai troppa attenzione.La stanza era praticamente vuota. Era occupata soltanto da un divano che una volta doveva essere stato bianco, rotto in più punti — come se fosse stato tagliato, forse graffiato — e spinto con forza contro a una porta rossiccia che pareva sul punto di cadere.
Per il resto, c'ero solo io. Io e il silenzio che mi circondava.Riconobbi poi una specie di finestra, di quelle piccole e praticamente inutili, con soltanto delle inferriate spesse e solide a separarmi dall'esterno. I vetri erano in mille pezzi e ammucchiati sul pavimento, mentre le tende verdognole che la incorniciavano erano piene di buchi e scolorite dal tempo. Fuori, il buio, interrotto da continue luci intermittenti.
Feci per alzarmi, senza avere in mente un vero piano, ma qualcosa attirò la mia attenzione: delle voci.
In un primo momento credetti quasi di essermele immaginate: non c'era nessuno, lì con me.
Tutto sembrava morto e immobile, congelato. Ma poi parlarono ancora, a un volume più alto — quasi come se stessero cercando di farsi sentire —, e capii che invece mi sbagliavo; erano reali, e provenivano proprio da dietro quella porta rossa e malandata che mi spaventava così tanto.
Deglutii sonoramente, sentendo la tensione aumentare pian piano.«Che cosa diavolo ci facciamo qui, eh?»
Sussultai, presa alla sprovvista. Qualcuno — una donna, di questo ero certa — aveva appena urlato quelle parole con rabbia, ringhiando quasi. Mi pareva familiare, ma non riuscii a collegarla a nessun viso conosciuto, in quel momento.
«Se avessi saputo che saremmo finiti in un posto del genere, non avrei mai accettato di aiutarti.»Aiutarti... per cosa?, pensai. E chi, soprattutto?
Ci fu una breve pausa. «Pensavo che il piano fosse un altro.»
Mi sollevai lentamente, cercando di non emettere un singolo rumore, e camminai passo dopo passo fino al divano semidistrutto. Mi spostai di lato — sfiorando il tessuto ruvido che ricopriva i cuscini con l'orlo del vestito logoro e sgualcito che stavo indossando — e appoggiai un orecchio contro il muro, attendendo che qualcuno parlasse. Non dovetti aspettare troppo.«E soprattutto non credevo comprendesse questo» proseguì la donna di prima. Sentii qualcuno — probabilmente lei — camminare per qualche istante. «Fare la fame e rischiare di prendere la peste in un bilocale abbandonato da almeno vent'anni a tre quarti d'ora dal centro di Los Angeles» fece, ridendo istericamente. Poi finse di applaudire, battendo le mani con una lentezza esasperante. «Complimenti» disse. «Non potevi proprio trovare di meglio.»
Strabuzzai gli occhi.
Los Angeles?, pensai ancora.
Come ci sono arrivata, io, a Los Angeles?«Non erano questi gli accordi» sibilò ancora, dopo un paio di secondi di calma, perentoria. Era sul punto di infuriarsi e si poteva capire lontano chilometri.
Inizialmente, però, non sentii nulla; nessuna risposta. Ma quella tranquillità non durò a lungo.Qualcosa — probabilmente un bicchiere — cadde a terra e si distrusse completamente, facendo così tanto rumore che mi spaventai — ancora una volta. Sentii chiaramente il vetro infrangersi in mille pezzi e i cocci venire calpestati da qualcuno con noncuranza.
Un silenzio quasi irreale scese poi nella stanza, e capii immediatamente che la donna non avrebbe fatto nulla per colmarlo.
Forse aveva paura anche lei. Forse era come me.
Quando, poi, questa ricevette una risposta, non riuscii nemmeno più a respirare.«Gli accordi, qui, li stabilisco io.»
Sussultai di nuovo. Mi allontanai istintivamente di un passo, scuotendo la testa.No, pensavo.
Non può essere vero.Gli occhi mi si inumidirono improvvisamente, il cuore prese a battere sempre più velocemente. Caddi, inciampando in un pezzo di legno scuro. E una volta a terra, guardandomi intorno, cercando di capire se tutto fosse reale o no, vidi meglio quelle macchie scure che avevo creduto essere soltanto acqua.
Mi sbagliavo: erano chiazze rosse, definite, ancora umide, fresche.
Era sangue.Mi portai una mano alla bocca nel tentativo di trattenere un urlo, e notai che le mie dita erano dipinte di quel tipico color scarlatto. Singhiozzai.
Qualcuno, poco lontano da me, gridò tra le lacrime.Sentii il mio nome.
«Lydia!» urlava qualcuno, sgolandosi. «Qualcuno mi aiuti! Aiutatemi!»E la voce, stavolta, era quella di Grace.
Fragile e potente allo stesso tempo, sottile e determinata.
Ma lei era troppo lontana e io ero troppo sconvolta perché potessi fare qualcosa. Non sarei riuscita a salvarla, in quella situazione; per un istante, pensai anche che non sarei mai riuscita a salvarla, che sarebbe morta per colpa mia; che tutti loro avrebbero fatto quella fine, uno dopo l'altro.E capii che il sangue sul pavimento era il suo, che le lacrime che mi scendevano sul viso erano anche le sue e che il vuoto che sentivo nel petto era sempre il suo.
«Non riuscirete a fermarmi.»
Ma quando sentii dei passi — la solita camminata lenta e regolare che ben conoscevo e che mi fece accapponare, ancora una volta, la pelle — che si allontanavano senza fretta, capii anche che era lui. Che quella era la sua voce, che quello era il suo nascondiglio, che stava parlando del suo piano.
«E tu lo sai meglio di me.»
E a quel punto — con la pelle del viso e del collo imperlata di sudore e gli occhi pieni di lacrime — mi risvegliai, con un urlo incastrato in gola e lo sguardo puntato sulle pareti della mia stanza; e sulle labbra soltanto due parole: Los Angeles.
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Bloodshed | Teen Wolf - Stydia
Fanfiction- Haunted Trilogy, Second - ❝Hell is empty and all the devils are here.❞ Prima le voci calarono pian piano d'intensità, fino a ridursi ad un flebile sussurro; le lacrime smisero di scorrere sulle mie guance. Dopo i brividi scomparvero; le mie mani n...