4. Blacked out

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Non sono mai stata una persona impulsiva. Ho sempre cercato di ragionare prima di agire, di soppesare ogni parola e di non fare mosse avventate. Di non fare nulla di cui, poi, mi sarei potuta pentire.
Ma lì, quella notte, in quel momento, mandai semplicemente tutto al diavolo.

Seguii soltanto il mio puro istinto, e una ventina minuti dopo mi ritrovai nella mia auto, con addosso il primo paio di jeans e la prima felpa che mi erano capitati sotto mano, con la valigia che non avevo ancora disfatto sul sedile del passeggero e con il fiatone.

Faceva freddo, lì fuori, e i vetri della macchina erano già lievemente appannati. Tutto era immobile, calmo, addormentato; tutto, sì, tranne me.

Appoggiai con delicatezza le mani sul volante, respirando a pieni polmoni e cercando di rallentare il battito cardiaco che, mio malgrado, stava diventando sempre più veloce. Appena chiusi gli occhi, però, risentii la voce rotta dal pianto e le urla disperate di Grace, e rividi le macchie di sangue sul pavimento sporco. E allora spalancai le palpebre e, con un gesto secco, rigirai la chiave e misi in moto.

Feci per schiacciare il pedale dell'acceleratore — forse fin troppo decisa — quando una voce alle mie spalle mi fece sussultare.
«Avevate ragione» disse questa.
Mi voltai, vedendo Isaac — i capelli spettinati, le palpebre pesanti e la voce impastata dal sonno — che parlava al telefono.
«Voleva davvero scaricarci.»

Gli rivolsi uno sguardo a metà tra l'interrogativo e l'arrabbiato.
«Ma che stai dicendo?» chiesi, strofinandomi gli occhi con il dorso della mano destra e fingendo di essere assonnata, anche se, in realtà, ero sveglia come non mai. Lui mi ignorò e mi liquidò con un semplice gesto della mano, facendomi segno di non parlare.

«Sì, va bene. Vi aspetto qui» e chiuse la telefonata, riponendo il cellulare nella tasca della tuta grigia che usava come pigiama.

«Allora?» lo esortai. «Che cosa ci fai tu nella mia macchina alle...»
Feci per guardare l'orologio che di solito tenevo sul polso sinistro, accorgendomi solo in quell'istante di averlo dimenticato sul comodino di camera mia.
«Alle quattro di notte» continuò quindi lui, incrociando le braccia sul petto. «Ma dovrei essere io a chiederti cosa diavolo tu stia facendo, Lydia, no?»

Lo fissai, corrugando la fronte.
«Quale parte di "la mia macchina" non ti è chiara?»
Lui rise forzatamente, cercando di mostrarsi spiritoso — cosa che, onestamente, non era affatto.
«Ammettilo» fece poi, tornando improvvisamente serio come sempre. «Stavi cercando di scappare.»

Boccheggiai per qualche istante, cercando una qualsiasi scusa, un qualsiasi appiglio. Poco dopo, però, realizzai che non ce n'erano e, quindi, non tentai nemmeno di negare; sarebbe stato inutile, uno spreco di tempo.

«E anche se fosse?» domandai allora, dichiarandomi praticamente colpevole e alzando un sopracciglio.
Il riccio mi osservò. «Avevamo deciso che saremmo venuti con te.»
«Scott avevate deciso che sareste venuti con me» replicai immediatamente, sollevando una mano come per fermarlo. «Non io.»

Isaac sospirò sommessamente, passandosi una mano tra i capelli e abbassando di poco lo sguardo.
«Non ricominciare» mi implorò, trattenendo a stento uno sbadiglio.
Io lo ignorai. «E vi fidate così tanto di me da cominciare anche a sorvegliarmi ventiquattr'ore su ventiquattro. Complimenti, davvero.»

Il lupo alzò la testa, guardandosi intorno per un attimo prima di parlare: «Perché, ci siamo per caso sbagliati?»

Non risposi. Un po' perché non sapevo più cosa dire e un po' perché Isaac aveva davvero ragione; tutti loro ne avevano.
Perciò tacqui, e dopo pochi istanti — che, però, mi parvero ore — tutti e quattro gli sportelli si spalancarono quasi all'unisono. Di fianco a me fece capolino la testa dell'Alpha.

«Lo sapevo» borbottò, lanciando una veloce occhiata al biondo e, poi, a me. La delusione che riempiva i suoi occhi e le sue parole era palpabile. Lo guardai, senza sapere esattamente cosa dire, e gli sfiorai un braccio, avvicinandomi appena. Lui si scansò impercettibilmente e mi fissò senza alcuna emozione.
«Vai dietro, guida Derek» disse, piatto.

Io annuii soltanto, sentendomi in colpa per averlo in un qualche modo tradito e uscendo dall'auto.
«Dove andiamo?» chiese allora il più grande, allacciandosi la cintura e afferrando il volante. Mi sedetti sui sedili posteriori e abbassai lo sguardo.
«Verso Los Angeles» sussurrai. «Una volta lì saprò dove andare.»

E così partimmo per un'altra missione potenzialmente suicida. L'ultima.

***

«Era questo il posto.»
«Ne sei sicura?»

Eravamo appena arrivati un una sottospecie di parcheggio abbandonato, che era più che altro un piazzale di cemento che, probabilmente, non era stato calpestato da nessuno per almeno dieci anni. Il terreno era arido, secco, e ricoperto da uno spesso strato di polvere, mozziconi di sigarette e buste di plastica distrutte.

Di fianco al vecchio parcheggio, a una trentina di metri da noi, un edificio fatto di crepe, di intonaco che cadeva a pezzi, di finestre distrutte e di macchie d'umidità minacciava di cadere da un momento all'altro.

Mossi qualche passo in avanti, ascoltando il silenzio che ci circondava.
«Sì» dissi, dopo qualche istante. «Nel sogno ero in quell'edificio» e indicai la struttura di fronte a me.

Tutti quanti — Scott per primo — guardarono il punto che il mio indice stava indicando.
Lara aggrottò le sopracciglia. «Non mi sembra troppo sicuro» borbottò.
Isaac rise. «Dove sarebbe il divertimento, altrimenti?»

Derek alzò gli occhi al cielo e, subito dopo, rivolse un'occhiataccia all'amico, che ammutolì istantaneamente.
Quindi Scott si voltò verso di noi, fiducioso. «Andiamo?»
Non attesi la loro risposta e cominciai a camminare velocemente, impaziente.

Accadde tutto in un attimo.
Sentii prima i passi degli altri dietro di me, poi un fischio e dopo ancora un urlo, qualcuno che ringhiava e un «Corri, Lydia!» urlato dall'Alpha. Persone che cadevano, singhiozzi, gemiti di dolore. E io, non ascoltando le continue grida di Scott — che parevano più ordini —, mi girai.

Una raffica di frecce — continua, regolare — si era scatenata sui miei amici, come pioggia. Cercavano di scappare, di nascondersi, di proteggersi a vicenda, ma era tutto inutile.
Mi spingevano via, strillavano il mio nome, mi dicevano di mettermi al sicuro. Ma io non riuscivo a muovermi. E non una sola freccia mi aveva sfiorato: si conficcavano nel terreno a tre, due, mezzo metro da me, ma non di più. Mi evitavano.

E allora il pensiero che potesse essere lui stesso il nostro — il loro — aggressore mi investì in pieno, mozzandomi il fiato con violenza. Perché sapevo che non avrebbe esitato a ucciderli tutti, staccandogli la testa uno dopo l'altro.

Non avevo ancora ripreso a respirare che notai un movimento fin troppo veloce alle mie spalle e, voltandomi, intravidi solamente un sorriso beffardo che mi fece accapponare la pelle e venire i brividi.
Poi venni colpita con violenza alla testa e, inerme, caddi a terra, mentre il buio si faceva lentamente spazio davanti ai miei occhi.

Bloodshed | Teen Wolf - Stydia Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora