1~Inaspettatamente

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Non cominceró con il solito "c'era una volta", ma col dirvi che a quel tempo ero una comune mortale. Sì, non avevo nulla di speciale, ero una giovane studentessa, da poco diciassettenne, con ottimi voti. Avevo grandi ambizioni: un giorno avrei desiderato
diventare una delle migliori e più conosciute criminologhe. Certo, non ero sadica, ero un'esile ragazzina amante degli animali, con bionde ciocche spesso raccolte in una semplice, ma efficace, coda.

Succedeva che sempre più frequentemente venivo derisa per qualsiasi cosa, giusto per il gusto di vedermi soffrire, perché ero ingenua e innocente. Subito davo tanto, troppo, peso alle offese. Poi non ci feci quasi più caso.

Avevo una vita alquanto noiosa. Non uscivo spesso con gli amici, nonostante avessi una migliore amica fantastica. Si chiamava Melody. Lei era sempre sprizzante di gioia e aveva sempre voglia di fare qualcosa. Io, invece, preferivo rimanere a casa, rinchiusa in camera mia, sdraiata sul mio letto con un libro in mano. Leggevo per sfuggire ad una realtà di dolore e angoscia. La mia visione del mondo non era la
stessa di Melody.

Tutto ebbe inizio una mattinata di maggio.

Ero in corriera, seduta di fianco a uno sconosciuto, con le cuffiette infilate nelle orecchie. Ero immersa nei miei pensieri. Pensavo alla vita, alle mie fantasie, alle parole del testo della canzone, mentre guardavo il paesaggio scorrere e sparire dietro di me attraverso il vetro bagnato e sparso di goccioline d'acqua.

Quando l'autista inchiodò all'improvviso.

All'incrocio una macchina blu metallizzato era appena stata scaraventata nel fosso che delimitava la strada da un'altra auto scura, che però se la filò immediatamente, senza prestare alcun tipo di soccorso.

L'autista della nostra corriera si precipitò immediatamente verso il luogo dell'incidente, cercando di tirare fuori dal mezzo le persone che ne erano rimaste intrappolate.

Il mio vicino afferrò il cellulare e digitó il numero d'emergenza. Io invece me ne stavo lì, ad osservare la scena, mentre il cantante mi urlava a tutto volume nelle orecchie "you only live once".

E ancora una volta la natura umana mi faceva capire che a questo mondo esistevano essenzialmente due tipi di persone.

Vedevo gente accostare e scendere dalle proprie macchine per dare una mano, mentre altri, con più fretta, sfrecciare via, come se nulla fosse. Gli studenti scendevano dalla corriera e preoccupati parlavano al cellulare o tra di loro, si portavano le mani alla bocca o tra i capelli, o magari si mettevano a saltare o a correre in giro, come se potesse servire a qualcosa.

Ero rimasta da sola. Come sempre. Ero disorientata. Pensavo alle famiglie dei passeggeri dell'automobile, ai sensi di colpa che si sarebbe poi portato dietro per tutta la vita l'uomo che era al volante. Sempre che se la fosse cavata.
Ma se era stato davvero un incidente, non voluto, perché l'altra auto non si era fermata?

Le sirene cominciavano a sentirsi in lontananza viaggiare a tutta velocità, e in men che non si dica il posto si riempì di auto della polizia insieme a due ambulanze; poi li raggiunsero anche i carabinieri. Li vedevo operare, ma scuotevano la testa. Sentivo la pelle d'oca. Era una sensazione orribile, vedere la morte. Il bordo strada era macchiato di un fluido rossastro. Credevo che il sangue fosse di un colore più acceso. Nel frattempo la pioggia si intensificava e l'acqua lavava via i resti di dolore e sofferenza dalla strada. Uomini in divisa cominciarono a fare domande ai testimoni. Io ero ancora rimasta ferma a guardare il susseguirsi di eventi dall'interno del veicolo con il quale andavo a scuola tutti i giorni, sei giorni alla settimana. Per me ormai era diventato un luogo familiare, sicuro. Ma non capivo da cosa dovessi sentirmi al sicuro. Mi accorsi improvvisamente di un desiderio profondo: volevo scappare, nascondermi in camera mia, nel mio mondo. Perché?

Decisi che era arrivato il momento di togliermi le cuffiette. Era tutto così
rumoroso! Non riuscivo a sentire nulla oltre al continuo scroscio dell'acqua.

Arrivò così anche il carro attrezzi che agganciò l'auto coinvolta nell'incidente, e dopo alcuni tentativi riuscì a riportarla fuori. Della macchina non era rimasto nulla, se non un vago accenno che ricordasse la forma del veicolo precedente: era stata ridotta ad un catorcio di metallo, una trappola mortale.

Solo a quel punto notai un particolare e una lacrima veloce si fece strada e
disegnò una lunga riga di pelle bagnata sulla mia guancia. Mi sentivo gli occhi lucidi e pesanti e un mal di gola improvviso. Volevo urlare, ma non emettevo alcun suono, tenevo la bocca spalancata, pronta a gridare, ma ero troppo affranta per dire una sola parola. Non volevo crederci. Quante possibilità c'erano che potesse essere
proprio l'auto di papà?! Avevo riconosciuto la targa, ma cercavo di formulare ipotesi impossibili, spiegazioni assurde, consolazioni inutili.

Un braccio pendeva fuori dal finestrino. Il sangue colava e segnava la sua pelle candida, fino ad arrivare alla fede che portava all'anulare.

A quel punto salì le scale dell'entrata anteriore uno dei poliziotti che, intuendo dalla mia reazione, si tolse il cappello e se lo portò al petto. Rimase fermo a contemplarmi per qualche secondo. Esitava. Sapeva che non era né il momento né il luogo adatto per parlare con me, ma doveva anche svolgere il suo lavoro. Allora riprese a camminare verso di me, un passo per volta, molto cautamente, come quando si vede un capriolo nel bosco e per non farlo scappare si evita di fare movimenti bruschi e ci si avvicina lentamente. Ma non sempre funziona. Infatti in quell'istante scattai in piedi e mi precipitai fuori dalla corriera. La pioggia fredda cadeva violentemente per terra e io la sentivo battere in testa e sulle spalle. Sembrava riflettere il mio umore. Mi fermai un secondo. L'odore di asfalto bagnato mi invase. Le mie lacrime si mescolavano alle gocce cadute dall'alto. Il cielo cinereo sembrava piangere con me.

Improvvisamente una mano calda e pesante si appoggiò sulla mia spalla. Era ancora lo stesso poliziotto. Avevo il viso dilaniato, il cuore distrutto. Riuscivo a non pensare a nulla.

Il mio comportamento era il riflesso del mio istinto che mi portava a fare certe cose anche contro la mia volontà. Volevo fare molto, tutto il possibile per riportare mio padre e mia madre da me. Ma non sapevo cosa.

Mi voltai a guardare negli occhi l'uomo. Mi mettevano in soggezione. Non erano seri,e neanche cattivi, solo che in quella situazione vedevo una realtà distorta.

Mi sembrava mi stessero dicendo che era tutta colpa mia, che ero un'incapace, che se volevo veramente bene ai miei genitori avrei dovuto fare qualcosa. Impedire in qualche modo la loro morte. Ma come?!

Ero stata io a spingerli ad abbandonare il mondo dei mortali.

Ero stata io l'origine delle loro sofferenze.

Poi mi riportò al mondo reale un rumore di motore appena messo in moto. Il carro attrezzi se ne stava andando. Mi misi a correre. Lo inseguii finché non crollai al suolo, distrutta per lo sforzo fisico ed emotivo.

Un altro uomo in divisa mi raggiunse e cercò di farmi alzare.Mi fece salire nella sua macchina, dove cercò in qualche modo di interagire con me. Ma io non rispondevo. Avevo lo sguardo perso. Mi sentivo un enorme vuoto dentro, come una voragine che mi risucchiava al suo interno, verso il buio, verso il nulla.

Mi fece scendere dopo un po' e mi ritrovai alla centrale di polizia. Lí mi consegnò adun suo collega, dopodiché risalì in macchina e se ne andò.

Passai la notte in quell'edificio, buio e sconosciuto: l'ultimo posto al mondo in cui volevo ritrovarmi in quel momento. Non chiusi occhio e non riuscii a dire una parola. Non risposi a nessuna delle tante domande che mi fecero.

Riuscivo a pensare soltanto alle ultime cose fatte con mio padre e le ultime parole che avevo detto a mia madre quella mattina. Avrei solo desiderato averli potuti salutare, un'ultima volta. Abbracciarli. Dir loro quanto ero grata di averli avuti come genitori e di quanto volevo loro bene.

Non ricordo molto altro, solo che due poliziotti più tardi mi scortarono a casa e mi dissero che dovevano parlare con i servizi sociali per decidere il da farsi, visto che non ero ancora maggiorenne.
E mentre continuavano a discutere su ciò che mi sarebbe successo e su quello che mi avrebbero consigliato di fare, mi sedetti sul mio letto che non vedevo, nè toccavo da molto tempo e mi addormentai, quasi senza accorgermene.

Il patto col DiavoloDove le storie prendono vita. Scoprilo ora