1st. “Londra”
Piove.
Tante piccole gocce che imperlano il vetro, si uniscono talvolta alle loro compagne e crescono, fino a che, troppo pesanti, scendono giù in tanti piccoli rivoli e si perdono oltre la cornice della finestra.
Piove, e il ritmo aumenta, sempre più veloce e frastornante, come poche altre volte ho visto nella mia vita... perché in fondo sono “appena” cinque anni che vivo a Londra e ancora non so se mi piace.
Qui è diverso.
Non c’è né il sole accecante, né l’afa corposa e costante della Florida. Londra non ha niente a che vedere con Jacksonville.
Ci sono momenti in cui la spiaggia e l’oceano di Atlantic Beach mi mancano. Ho nostalgia di quel periodo della mia vita, in cui c’era un cielo perennemente azzurro – o almeno, lo era per la maggior parte dell’anno – e raggi cocenti a scaldarmi la pelle. Eppure, nonostante tutta quella luce, i miei giorni erano opachi.
A volte mi sentivo come una semplice spettatrice di quella che era la mia vita e che trascorreva indipendentemente da me.
Era come un film.
Me ne stavo a guardare quel luogo sfarzoso e solare dalla mia comoda poltrona nella mente, immersa nel buio e lontana da tutto.
Non che fossi un’asociale, perennemente relegata nella solitudine della mia casa, senza uno straccio di amicizie o relazioni; c’erano – c’erano eccome – ma non le sentivo davvero mie. Non le sentivo come avrei dovuto. Sono stata un’estranea per la mia vita nei primi ventitré anni. Solo questo.
Una semplice ragazza, con semplici amicizie ed un altrettanto banale rapporto con un ragazzo, vagamente simile ad un fidanzamento, durato qualcosa come un paio d’anni, ma mai realmente ufficializzato. E in fondo, mi andava bene così.
Non mi sono mai lamentata, ma non andavo matta per quello che stavo vivendo. Era tutto piuttosto mediocre e tranquillo. Semplice, appunto.
L’apoteosi della normalità.
Non lo detestavo, ma non aveva nulla di speciale e probabilmente niente sarebbe cambiato se quel giorno non avessi deciso di guardare fuori da quella bolla opaca ed atterrare qua, a Londra.
Compresi subito che sarebbe cambiato qualcosa, oltre al clima ovviamente.
Lasciai il sole prepotente di Jacksonville per incontrare la sua versione timida, nascosta tra le nuvole grigie e spumose. Lasciai la luminosità accecante dell’oceano che si rifletteva sui grattaceli per immergermi nelle strade fumose e più cupe di Londra. Lasciai quella parvenza di vita, per una vera. Una ventata d’aria fresca, elettrizzante, a tratti assurda e probabilmente un po’ romanzata, ma era pur sempre vita e finalmente la sentivo davvero mia.
Spesso mi sono chiesta se quell’opaco grigiore che percepivo attorno a me si fosse dissipato durante quel lunghissimo volo, andando a sistemarsi nel cielo. Sembrava che avessi stretto un patto con ciò che mi circondava e, se a Jacksonville ero una ragazza semplice, – e un po’ vuota, lo ammetto – con un’esistenza appannata, sotto una lastra azzurra e luminosa; a Londra ero una persona solare e brillante, con sopra la testa un manto infinito di nubi cupe.
Ero quindi scesa da quell’aereo sempre stretta nella mia bolla, ma come avevo messo piede in quel posto, qualcuno aveva soffiato così forte da farmi volare, tanto da stravolgere tutto ciò che ero, così come quello in cui credevo.
Quel qualcuno che spesso ho desiderato veder sparire. Quel qualcuno che ho maledetto per giorni e notti, senza neanche riprender fiato. Quel qualcuno che, a volte, avrei preferito non aver mai incontrato.
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Blowing Bubbles
RomanceLondra. Anni '80. Tra il gli ultimi colpi del vero Rock, la scintilla di anarchismo del Punk e la follia degli Hooligans: C'è Lei: Elle, 23 anni, americana; e c'è Lui: Aaron, 26 anni, inglese. Tratto dal primo capitolo: “Lasciai il sole prepotente d...