29 Settembre.

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                                               2nd. “29 Settembre”

Per mia fortuna, il tragitto fino a casa di mia sorella non fu poi molto lungo, già che per quel che mi riguardava, avevo ampiamente superato la mia dose di adrenalina giornaliera.
Prima il volo in aereo, con tanto di stordimento e terrore d’alta quota, poi il viaggio in macchina e l’approdo alla stazione di polizia per il recupero di un esagitato martoriato, e infine, di nuovo su quelle odiose scatole su quattro ruote.
Costeggiammo quello che Emma m’indicò come lo West Ham Park, lungo Plashet road, fino a raggiungere il centro dell’East Ham; l’appartamento, mi disse poi, era in una delle piccole vie traverse alla più famosa Barking road.
Avevo parlato spesso con mia sorella della sua vita qui e sapevo che la zona in cui viveva era quella portuale a nord del Tamigi che, fin dai primi anni del novecento, non era certo considerata una delle più sontuose. L’East Ham faceva parte di quella Londra prettamente proletaria, eppure lei si ostinava a raccontarmi di quanto fosse gratificante viverci; di come le persone sentissero l’attaccamento alla loro città e si definissero i veri abitanti della capitale inglese.
Prima di partire però, mi ero attivata per effettuare qualche ricerca sul posto in cui sarei andata a vivere e, per un attimo, ero stata sul punto di desistere.
Dalle statistiche almeno, la parte est di Londra risultava essere quella col tasso di criminalità più elevato dell’intera città, e questo ovviamente non fece che spaventarmi ma, quando Emma sentì la mia voce titubante e risposte sempre più vaghe a proposito del mio trasferimento capì, e iniziò con i suoi monologhi infiniti, tirando fuori la sua innata capacità di mostrarmi note rosee anche nell’abisso più nero, finendo col riportarmi a essere favorevole alla partenza.
Da quel giorno poi, in ogni sua telefonata, non aveva mai dimenticato di ricordarmi di quanto fosse gentile il signor McCartney, l’inquilino che occupava la casa davanti alla loro, o di quanto fossero gustose le belle torte della signora Brawn, sua vicina.
Mi parlava dei piccoli Chad e Anthony, che aiutava a svolgere i compiti, e del burbero vecchietto che abitava in fondo alla via e che, nonostante il suo perenne grugno, aveva più volte dimostrato di possedere un cuore d’oro.
Emma diceva sempre che la vera aria di Londra riusciva a respirarla solo lì: in quella zona dove abitavano persone umili che si ostinavano a parlare il Cockney e rimarcare orgogliosi la loro provenienza, piuttosto che usare l’inglese perfetto preferito da “quelli della City”; o i “falsi londinesi”, come scherzosamente li definivano loro.
In tutto quel trambusto d’informazioni non avevo la più pallida idea di cosa mi sarei dovuta aspettare, ma non continuai a pormi domande ancora a lungo, perché rimasi beatamente estasiata dalla vista della loro casa su due piani, in mattoni rossi a vista e col tetto spiovente e scuro; le porte e gli infissi delle finestre che staccavano dal resto in un bianco latte e il delizioso, piccolo giardinetto che si estendeva davanti alla casa, circondato da una ringhiera di ferro.
Non era grande come quella in cui avevamo sempre vissuto a Jacksonville, probabilmente neanche la metà, eppure si mostrava ai miei occhi così calda e accogliente e così tipicamente londinese da emozionarmi.
Potrà sembrare assurdo, ma da quel giorno per me, vedere quella fila di rettangolini rossi e quella porta candida fu sinonimo di un nuovo inizio.


Scesi dalla macchina, con le labbra distese in un sorriso e di nuovo quella strana scia di calore ad avvolgermi. Presi la borsa e mi avvicinai al bagagliaio per recuperare le mie cose, mentre Brian ci raggiungeva per aiutarci, seguito dal suo tumefatto fratellino.
Feci per afferrare uno dei borsoni, quando una mano livida mi anticipò, e il suo proprietario mi riservò uno strano ghigno storto, probabilmente dovuto al gonfiore delle labbra.
«E così, tu sei la sorellina di Emma» esordì, assottigliando un po’ gli occhi forse per il dolore, nel tentativo di allargare il suo sorriso. «Io sono Aaron»
«L’avevo intuito» risposi, ma non riuscii a pronunciare il mio nome, perché una voce lo chiamò e conquistò la sua attenzione. Mi voltai istintivamente in quella direzione e scorsi dall’altra parte della strada due ragazzi, presumibilmente poco più grandi di me, che sghignazzavano e si sbracciavano.
«Ti hanno rilasciato anche stavolta, bastardo?» rise, uno dei due, mentre attraversava e si avvicinava affiancato dall’altro.
Era più basso e più tarchiato di Aaron. Occhi scuri e capelli castani, lunghi pochi centimetri. Formava una buffa accoppiata col suo compagno, che per contro era più alto e slanciato; iridi chiare e capelli un po’ più lunghi, di un biondiccio spento, tendente al cenere.
«Così sembra» soffiò Aaron, prima di stringergli la mano, in un gesto di saluto.
«Vieni al pub?» chiese quello biondo.
«Magari dopo, finisco qui e...»
«Magari, direi proprio di no» lo interruppe la voce di Brian alle nostre spalle.
Aaron si voltò e lo guardò storto. «E questo che significa?»
«Quello che ho appena detto.»
«Se ti aspetti di mettermi in punizione, hai preso un bell’abbaglio! Non ho più dieci anni» ringhiò il fratello più giovane, aggrottando la fronte.
«A vederti, non si direbbe» replicò invece l’altro, mantenendo una calma apparentemente perfetta. Non sembrava neanche la stessa persona che l’aveva colpito nella stazione di polizia.
Scese il silenzio per qualche secondo, poi uno di quei due sconosciuti si decise a riprendere la parola e far terminare quella guerra di sguardi gelidi che si era creata tra i due. «Ehi, se riesci a liberarti, ci vediamo là.»
«Ok» fu la sua semplice risposta, in aggiunta a un saluto col cenno della testa, prima di lanciare l’ennesima occhiataccia a Brian.
Prese poi il mio bagaglio, lo tirò su senza sforzo, si avviò oltre il cancelletto in ferro battuto ed entrò in casa, senza degnarmi di uno sguardo.
Afferrai le ultime cose, lanciando uno sguardo incuriosito verso quei due ragazzi che nel frattempo si erano allontanati, continuando però a guardarsi indietro, e li vidi parlottare e sorridere di qualcosa, prima di svoltare l’angolo e sparire alla mia vista.
Entrai in casa e trovai mia sorella ad accogliermi nell’ingresso. Mi fece posare tutto, con la promessa che ci avrebbero pensato gli uomini a sistemare e, dopo avermi afferrato il polso, prese a girare come una trottola per tutta la casa per mostrarmi ogni singolo angolo.
Vidi la cucina rustica e il tavolo al centro, in legno chiaro. Avanzammo verso il salotto, illuminato da un’ampia finestra contornata da tende giallo pallido, con il caminetto all’angolo. Mi mostrò il bagno al primo piano, più grande di quello al secondo, e la loro stanza, per poi salire le scale in legno e indicarmi tre porte.
«Quella è la stanza del matto. Non ci entriamo perché non vorrei rischiare la defenestrazione» rise e passò a indicare la porta adiacente. «Questa invece è la tua stanza» annunciò, e abbassò la maniglia per aprire la porta.
Era una camera più piccola di quella che avevo a Jacksonville, ma mi piacque subito.
Semplici pareti bianche, che sotto invito di mia sorella avrei potuto tinteggiare a mio piacimento, e un letto matrimoniale al centro, perché sapeva che io amavo arrotolarmi nelle lenzuola quando dormivo, affiancato da un comò su cui posavano un’abat-jour e il telefono. Sulla parete opposta stava un enorme armadio e in un angolo faceva mostra di sé una deliziosissima toilette dallo specchio ovale. L’intera stanza poi, era illuminata da una grande finestra, con un bordo sporgente in pietra su cui mi sarei potuta accomodare per leggere un libro od osservare la strada sottostante.
«Ti piace?» chiese, mentre io girovagano entusiasta.
«Sì!» esclamai e mi gettai al suo collo, per stringerla in un abbraccio.
Concludemmo il tour con l’ultimo bagno e riscendemmo al piano di sotto, dove Brian si era già adoperato per apparecchiare.
«Allora Elle, che ne pensi del nostro covo?» sorrise, mentre sistemava una pentola sul fuoco. «Non ha niente a che vedere con la villa a cui eri abituata, ma spero ti senta a tuo agio.»
«Brian, scherzi?» gli sorrisi, sbirciando nella pentola. «È perfetta, davvero!»
«Se vuoi cambiare qualche disposizione o anche qualche mobile, basta che lo dici.»
«Ehi, ho detto è perfetta così» risposi e mi avvicinai per abbracciarlo. Non ero mai stata un tipo troppo affettuoso; nella mia famiglia gli abbracci e le coccole non erano un’abitudine molto radicata. Non che fossimo freddi tra di noi, semplicemente non eravamo troppo consoni a certe manifestazioni. Eppure, in quel momento, mi sentivo serena come mai lo ero stata nella mia vita, e avevo bisogno di scaricare quella sensazione in qualche modo; renderne partecipe qualcun altro, oltre a me.
Parlammo degli ultimi anni in Florida, del mio trasferimento a Yale e della mia laurea, della loro vita a Londra e del loro lavoro, ma nessuno dei due si azzardò ad accennare all’argomento “Aaron” e al motivo per cui fosse in quella stazione di polizia.
Continuavo a chiedermi perché – lecita curiosità d’altronde – ma qualcosa m’impediva di chiederlo chiaramente e far svanire quelle pressanti domande che si susseguivano nella mia testa. Poi, come se la mia mente l’avesse chiamato, comparve in cucina e afferrò una mela. Si era cambiato e aveva sistemato la faccia, lavando via il sangue che era rimasto incrostato sulla pelle.
«Non ci sono a cena» esordì, per poi addentare il frutto e voltarsi per uscire.
«Come scusa?» ringhiò suo fratello.
«Non ci sono a cena» ribadì l’altro, con una scrollata di spalle.
«Allora non ci siamo capiti. Tu non esci da qui.»
Aaron si soffermò a guardarlo per un attimo, con un’espressione indecifrabile, per poi scoppiare a ridere. «Certo, come se potessi impedirmelo.»
Uscì dalla cucina, addentando ancora una volta la mela e sparì nel corridoio. Nel momento in cui la serratura scattò, per aprire la porta, Brian corse nel corridoio e urlò: «Esci e stai pur certo che non rientri!» ma Aaron, neanche gli rispose. Sentii la porta richiudersi e dalla finestra lo vidi attraversare la strada e dirigersi chissà dove.
Quando Brian rientrò in cucina, l’atmosfera piacevole che si era creata crollò immediatamente, insieme al suo buonumore.
Sembrava che Aaron riuscisse a tirar fuori il peggio di lui. Quello che mi era sempre sembrato come una persona gentile, disponibile e pacata, affiancato a suo fratello si mostrava come un uomo arrabbiato e stanco. Provato dalle interminabili sfide con quel suo consanguineo più testardo di un muro, sregolato e, a quel che pareva, senza un minimo di morale o di rispetto. Che fosse un familiare o un poliziotto: Aaron non cambiava atteggiamento.
Dritto per la sua strada, avanti con le sue voglie e le sue idee, senza farsi problemi a passare sopra a chi gli si poneva davanti. Non avevo mai incontrato nessuno nella mia vita tanto irrispettoso quanto lui. Egoista, egocentrico e menefreghista a livelli inaccettabili e, per come la vedevo io, inumani.

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