Il Boleyn Ground.

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                                                 4] – Il Boleyn Ground.

Alcuni schiamazzi fuori, il rumore di qualcosa che si rovesciò a terra; poi un tonfo e una risata salirono nell'aria.

Mi svegliai di soprassalto, inizialmente convinta che fosse un sogno, ma quando udii altre risate, accesi l'abat-jour e, dopo aver abituato gli occhi alla luce fioca, guardai l'orologio.

Le 3:55. Deja-vù.

Raggiunsi la finestra con più equilibrio, forse la febbre era finalmente scesa, ma quello era l'ultimo dei miei pensieri. Mi sporsi per vedere meglio la strada sottostante e spalancai gli occhi, quando vidi un gruppo di ragazzi, tra cui due, sdraiati a terra.

Già, due. Ed uno di questi era Aaron.

Inorridii quando scorsi uno dei presenti avvicinarsi a lui e, senza pensarci, infilai le pantofole, scesi le scale più velocemente possibile ed uscii senza neanche coprirmi.

Ero in pigiama, scompigliata e con la testa ancora dolorante, ma perfettamente sveglia. In un attimo ero uscita dal rintontimento del sonno e avevo sorpassato il cancelletto.

«Aaron!» chiamai, ignorando la sensazione raschiante alla gola. «Aaron!» strillai ancora e tutti, lui compreso, si voltarono.

Alzò appena la testa e mi fece uno strano cenno di saluto, per poi scoppiare a ridere. Rimasi a bocca aperta e senza fiato, incapace di tranquillizzarmi, anche quando constatai che non aveva sangue o altri segni sul volto. «Ma che diavolo...»

«È ubriaco perso.» ridacchiò uno dei ragazzi, che riconobbi essere lo stesso incontrato nel pomeriggio, e la notte precedente. «Non si regge neanche in piedi questo coglione.»

Mi lasciai sfuggire un sospiro di sollievo, che si dissipò velocemente, quando mi accorsi di quanto era ubriaco. Ero corsa fuori come una pazza, spaventata dal fatto che potessero picchiarlo, che fosse a terra svenuto per i colpi ricevuti e invece, quell'idiota era solo perso per l'alcool, o meglio per la birra, a giudicare dall'odore.

Se ne stava lì, disteso come se nulla fosse, mormorando chissà cosa, con gli occhi appena socchiusi. Feci una smorfia tra lo sconvolto e il frustrato, e mi accoccolai vicino a lui, imprecando contro la mia testa e i miei occhi che, a tratti, facevano perdere consistenza alle immagini davanti a me.

«Aaron, mi senti?» domandai stupidamente e lui rispose con un grugnito non ben definito. Sbuffai e alzai lo sguardo verso quei ragazzi che ridevano divertiti, a parte uno, nelle stesse condizioni del mio biondo coinquilino. «Potete darmi una mano a portarlo dentro?»

«Tranquilla, ci pensiamo noi. Ci siamo abituati.» rispose uno.

Abituati? Che bella notizia!

Uno di loro – il ragazzo che avevo già incontrato – lo sollevò, sistemandoselo come un sacco sulla spalla, e ci avviammo verso il portone; intanto Aaron continuava con i suoi monologhi, fatti di mugolii e borbottii incomprensibili, scatenando le risatine soffocate degli altri. Salii in casa, seguita dal ragazzo castano con il peso morto appresso, che entrò silenziosamente nella sua stanza e lo lasciò ricadere sul letto. «E uno è a posto.» commentò, lanciandomi un'occhiata divertita.

«Grazie.» dissi e ricambiai quel sorriso.

«Ah, non preoccuparti. Te l'hanno detto, ci siamo abituati.» sorrise ancora e mi porse la mano. «A parte questo, io sono Christoper, ma chiamami Chris.»

«Elle.» risposi e strinsi la sua mano.

«Lo sappiamo, tranquilla. Soprattutto dopo stasera.» replicò lui, con una risatina sommessa ed accendendo la mia curiosità.

Blowing BubblesWhere stories live. Discover now