Un altro temporale.

169 5 2
                                    

                                                                  9] – Un altro temporale.

«Sicura di non voler niente di caldo?» mi chiese ancora, ed io scossi la testa per l’ennesima volta e abbassai lo sguardo.

Connor se ne stava lì, davanti a me, seduto all’altro lato della sua scrivania, e mi osservava preoccupato, dopo essersi premurato di darmi una felpa di ricambio e una coperta per non farmi prendere freddo.

Guardai fuori da una delle finestre con le inferriate scure della stazione di polizia, e ripresi a fissare le gocce di pioggia che continuavano a cadere fitte a terra e sul vetro. Sospirai stanca e infreddolita, bagnata fino al midollo come un pulcino e con i capelli, completamente fradici, attaccati alle guance. Ne scostai alcuni dietro l’orecchio e mi lasciai sprofondare contro lo schienale della poltrona in pelle.

Avevo continuato a correre sotto l’acqua nella speranza di togliermi – e lavarmi via di dosso – quell’orrenda sensazione di soffocamento. Desideravo solo cancellare tutto quello che avevo vissuto nei giorni dopo il mio arrivo a Londra; volevo grattare via ogni segno che Aaron aveva deliberatamente lasciato sul – e dentro – il mio corpo. Speravo solo di dimenticare presto tutto quello che avevo visto, sentito e provato in sua compagnia.

Dovevo cancellarlo. Solo questo.

Far finta che non fosse mai esistito, che non l’avessi mai incontrato.

Avevo portato le mie gambe allo stremo e i polmoni sul punto di esplodere. Ero senza fiato; decisamente a pezzi e senza la benché minima idea di dove fossi.

In fondo, correre senza pensare e senza una meta ma, soprattutto, fare cose stupide e sconsiderate, sembrava esser diventata la mia specialità. Se in America tendevo a misurare e controllare ogni mia reazione, comportamento o impegno, a Londra sembrava che avessi perso ogni briciolo di razionalità. Iniziai a pensare di averla persa durante il volo. Lasciata cadere dall’aereo ad affondare in quel vasto e profondo oceano che separava la mia vecchia vita da quella nuova.

Non ero più io.

Non sapevo chi fossi: sicuramente non la ragazza insicura, annoiata, apatica e vuota che aveva vissuto i suoi primi ventitré anni di vita sotto una finta patina dorata, completa di una maschera sorridente; ma non avrei saputo dire se quello in cui mi stavo trasformando mi piacesse o meno.

Non sapevo niente di questa Elle. Ero un tabù perfino per me stessa.

La vecchia Elle non sarebbe mai scappata come una furia, senza una meta, davanti a una situazione simile; anzi, per dirla tutta, la vecchia Elle, non si sarebbe mai trovata davanti a una situazione simile, perché mai avrebbe dato confidenza ad un elemento strano, incomprensibile e caotico come Aaron.

Nella mia vecchia vita non esisteva niente che non potessi prevedere e controllare. Non c’era nessuna assurda “variabile Aaron”.

Nella mia vecchia vita, al fianco della vecchia Elle, non c’era Aaron; per questo non avevo bisogno di lasciarmi andare a queste botte di testa pur di non impazzire; non mi sarei ritrovata fradicia di pioggia, né avrei avuto bisogno dell’aiuto di Connor per capire dove diavolo mi fossi cacciata; non sarei entrata in una stazione di polizia per asciugarmi un po’ e aspettare che qualcuno venisse a prendermi e, soprattutto, non avrei fatto venire una crisi isterica a mia sorella.

Da quando c’era Aaron, era evidente, non ne facevo una giusta.

«Ho chiamato la signorina Moore. Verrà tra pochi minuti a prenderla.» annunciò uno dei poliziotti in servizio, affacciandosi nell’ufficio di Connor.

Blowing BubblesWhere stories live. Discover now